Depressione adolescenziale. Scuola e lavoro incapaci di fungere da ascensore sociale. Così oggi le disuguaglianze colpiscono in primis le nuove generazioni. Come aiutarle?

Salari e diritti: la peggio gioventù - Colloquio con Tito Boeri

Pareva che concetti come la lotta di classe fossero sepolti in tempi remoti. Che i nativi digitali, cresciuti ai ritmi serrati dell’innovazione, si sarebbero trovati ad affrontare solo sfide avveniristiche. Invece, basta guardare attraverso le crepe del progresso per rendersi conto che gli adulti di domani – a ogni latitudine – sono i più fragili tra i fragili di oggi. “Le nuove generazioni del mondo”, con le ali tarpate dall’impossibilità di decidere e migliorare il proprio destino. Quelle a cui è dedicata la quarta edizione del Festival internazionale dell’Economia di Torino. «Lo stimolo a discutere della questione giovanile è arrivato osservando com’è mutato il profilo di chi soffre di depressione e stress», spiega Tito Boeri, che guida il dipartimento di Economia dell’Università Bocconi di Milano e la rivista mensile “Eco”, ed è anche direttore scientifico di questa rassegna, in programma dal 30 maggio al 2 giugno prossimi: «Tramite indicatori oggettivi, le indagini svolte sin dagli anni Novanta in 150 diversi Paesi mostrano l’andamento della curva del disagio psicologico. Ebbene: mentre, di norma, il suo livello era basso all’inizio della vita, aumentava intorno ai 50 anni con la crisi di mezza età e poi tornava a scendere, da circa un decennio il malessere più profondo si registra nell’adolescenza».

 

Dai conflitti alla povertà, particolarmente vulnerabili sono bambini e bambine. Con le disuguaglianze che segnano già il percorso dell’istruzione. «In Italia, più che altrove, a fare la differenza è il singolo insegnante: incontrarne uno valido può cambiare l’esistenza. Ma dipende dalla fortuna», prosegue il professore: «Fino alla scuola primaria non ci sono grandi squilibri nei livelli di apprendimento; i problemi esplodono dopo, in segmenti del sistema educativo che richiederebbero riforme incisive. Penso alle medie inferiori e superiori, dove i contenuti formativi sono limitati. E penso soprattutto agli istituti professionali, una sorta di vicolo cieco che lo studente è costretto a intraprendere troppo presto e che non è in grado di offrire quanto serve per immettersi in un mercato del lavoro assai dinamico». E il quadro può persino peggiorare passando all’università: «Molti continuano a evitare le materie Stem (acronimo inglese che indica Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica, ndr) privandosi di importanti sbocchi professionali». 

 

Da qui, il mismatch. «Nei Paesi avanzati, e nel nostro in maniera drastica, il numero di giovani si va riducendo. Resta, così, insoddisfatta la domanda di occupazione proveniente dalle imprese. L’orizzonte, inoltre, è meno roseo di quello che avevano davanti le precedenti generazioni: le opportunità scarseggiano, l’accesso al lavoro si caratterizza per ostacoli e condizioni sfavorevoli, tutele e welfare sono depotenziati. Il risultato è che progredire nella carriera e incrementare il reddito è molto difficile; l’ascensore sociale è guasto. C’è necessità, quindi, di accantonare risparmi e investire in forme integrative di pensione per assicurarsi una vecchiaia dignitosa», avverte Boeri che, tra il 2015 e il 2019, è stato presidente dell’Inps. D’altra parte, l’origine dei mali, il nodo che non si riesce a sciogliere sono i salari: «Rimangono bassi. Dal 2021 in avanti hanno subìto i pesanti contraccolpi dell’inflazione e hanno perso il dieci per cento del potere d’acquisto. In altri Stati tali effetti negativi sono stati arginati; da noi, invece, non si vedono segnali di recupero». Con buona pace degli annunci governativi.

 

Secondo il professore, le cause di questa situazione sono la mancanza di un salario minimo garantito, lo scarso funzionamento della contrattazione collettiva, la debolezza delle relazioni industriali. «Occorre una legge per regolamentare la rappresentanza sindacale, in modo da limitare il monopolio decisionale dei datori di lavoro e la conseguente ricattabilità dei dipendenti. Persiste, poi, una quota rilevante di precarietà; è vero che nell’ultimo periodo sono aumentati i contratti a tempo indeterminato, ma si tratta spesso di posizioni poco retribuite». Uno scenario sconfortante, a cui si sovrappongono discriminazioni concentrate su determinate categorie: «Il divario di genere penalizza specialmente le donne in età fertile. È un fenomeno di cui bisogna estirpare le radici culturali, ma si può cominciare introducendo correttivi di tipo economico. Esempi? Prevedere più congedi di paternità obbligatori, come in Spagna, spingerebbe le aziende a considerare alla pari entrambi i genitori».

 

La somma dei fattori – data l’assenza di prospettive e la sostanziale invalicabilità dei confini tra classi – ha prodotto e produce un enorme spreco di potenziale e la famosa «fuga di cervelli». L’Istat certifica il picco dei 156 mila italiani emigrati nel 2024: la maggior parte tra i 18 e i 39 anni, quasi la metà con una laurea in tasca. «Dobbiamo incoraggiarne il ritorno – riprende Boeri – sfruttando i disastri che l’amministrazione di Donald Trump sta compiendo negli Stati Uniti, a partire dagli atenei. Avremmo l’occasione per attrarre talenti, ma non lo stiamo facendo».

 

Oltre alla piaga del flusso in uscita, c’è l’incapacità di gestire quello in entrata. «È indispensabile che l’immigrazione diventi funzionale rispetto alle esigenze del nostro sistema produttivo e sociale. Un ambito su tutti: a fronte di una popolazione sempre più anziana, servono figure a cui affidare compiti di assistenza e cura. I quali, altrimenti, finiscono per gravare soltanto sulle donne. Ai referendum di giugno auspico una vittoria del sì al quinto quesito, che mira ad abbassare da dieci a cinque gli anni di residenza legale in Italia necessari per chiedere la cittadinanza. Ci allineeremmo ad altre realtà europee e accorceremmo il percorso d’integrazione di persone che abitano e lavorano nel nostro territorio. In primis, permetteremmo ai loro figli e alle loro figlie di acquisire in automatico la cittadinanza». Perché le cosiddette seconde generazioni sono un tesoro da valorizzare. E sono le più prolifiche, in tempi di calo demografico: «Si attenua o s’inverte tale tendenza con politiche durature e coerenti, con sostegni che resistano ai cambi di governo. Le famiglie vanno rassicurate sul lungo termine. Così la Francia ha alzato i suoi tassi di fecondità».

 

Il mondo, però, procede in direzione contraria. «Agli eccessi della globalizzazione si sta rispondendo con nazionalismi, isolamento, riarmo. Con ideologie che oppongono le comunità locali all’universalismo. Con la guerra dei dazi scatenata da Trump. Il quale, pur essendosi forse accorto dell’errore commesso, intanto ha seminato paura e incertezza: le peggiori nemiche d’investimenti e sviluppo. Tuttavia, i giovani danno prova di essere aperti e dinamici, protestano contro i movimenti di reazione. Questo riempie di fiducia». Ecco allora che il Festival – organizzato da Editori Laterza e Fondazione Collegio Carlo Alberto, assieme a varie istituzioni pubbliche e private – si prefigge di trattare il disagio giovanile con un approccio interdisciplinare. Portando nel capoluogo piemontese sia premi Nobel per l’Economia (da Daron Acemoğlu a Paul Krugman, da Christopher Pissarides a Michael Spence) sia sociologi, statistici, demografi, scrittori, psicologi e psicoanalisti. «Chiuderemo nel segno della speranza – conclude Boeri – parlando anche della futura ricostruzione dell’Ucraina e di pace». 

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