La fuga degli under 35 dall’Italia ha raggiunto le sette cifre nell’ultimo decennio. Ma il problema del Paese è l’incapacità di attirarne altri. O di convincere chi parte a tornare

L’Italia come terra di emigrazione. L’Italia come sistema socio-economico che non attrae, luogo da cui si parte e quasi mai si torna. Non è una “fuga dei cervelli”, è l’allontanamento di tutti i giovani – laureati e no – che nel proprio futuro non riescono a vedere o ritrovare un posto nel Paese in cui sono cresciuti. È un’emorragia senza fine – da anni in forte crescita – quella dei cittadini italiani tra i 18 e i 34 anni che decidono di emigrare per cercare migliori opportunità di formazione, lavoro ed equilibrio tra vita privata e professionale. Perché, a fronte di centinaia di migliaia di giovani che nell’ultimo decennio hanno preso la strada dell’espatrio, l’Italia non è in grado di offrire condizioni adeguate al ritorno di chi è partito, o per attrarre coetanei provenienti dai Paesi che sono le prime mete dell’emigrazione tricolore. Nord Europa, ma non solo.

Chi se ne va

Secondo i dati Istat, nel 2024 oltre 156mila italiani di ogni età hanno scelto di abbandonare il Paese. Forse per sempre, considerato il fatto che – nello stesso anno – solo 53mila hanno fatto ritorno. «Non tutti gli espatriati però cancellano la propria residenza dalle anagrafi italiane, noi ne stimiamo uno su tre», avverte Lorenzo Di Lenna, coautore dello studio della Fondazione Nord Est che ha analizzato un flusso di emigrazione giovanile pari a 550mila cancellazioni dalle anagrafi dal 2011 al 2023. «Se questi valori li raddoppiamo o triplichiamo, secondo la sottostima, arriviamo al milione di giovani emigrati in poco più di dieci anni».

 

Ma chi sono i ragazzi e le ragazze che decidono di andarsene? Di Lenna sottolinea che «non è corretto parlare di fuga di cervelli». Nonostante i laureati espatrino «in modo più che proporzionale» rispetto al rapporto sulla popolazione residente (uno su tre ha un titolo di studio terziario), questi rappresentano meno della metà del totale (44 per cento). «È un fenomeno di massa e riguarda tutti», non solo le professioni intellettuali – tra le meno valorizzate – ma anche i profili tecnici specializzati «assolutamente richiesti dalle imprese italiane», è la conclusione del ricercatore della Fondazione Nord Est.

 

A proposito degli espatriati, va ricordato che uno su quattro proviene da situazioni di svantaggio, per esempio abitare in un comune con poche migliaia di abitanti, aver abbandonato l’istruzione, o essere cresciuto in una famiglia a basso reddito. Dopo la scelta dell’addio (o arrivederci) all’Italia la situazione si capovolge: quasi tre su cinque (57 per cento) dichiarano che il proprio tenore di vita è elevato.

Perché si va, perché non si torna

«Non pensavo di rimanere tanto a lungo. Ma per una nuova occasione di lavoro prima di tornare, in Italia non si apriva nessuna porta». Così Claudia R., 34 anni dalla Spezia, racconta la sua esperienza iniziata con un tirocinio come receptionist in un hotel a Bruxelles 10 anni fa. Come lei, un giovane italiano ogni due espatria e rimane all’estero per motivi direttamente legati al posto di lavoro. Come spiega il ricercatore Di Lenna, «i fattori più importanti sono l’atmosfera di lavoro piacevole, l’equilibrio fra lavoro e vita privata e la retribuzione».

 

Una volta partiti, se le condizioni in Italia non sono soddisfacenti, è difficile tornare. La storia di Livia D., pasticciera e panettiera di 29 anni della provincia di Pisa, è paradigmatica. Dopo 5 anni passati ad Amsterdam, il tentativo di ritornare in Italia con il ragazzo per aprire una panetteria si è scontrato di fronte a una burocrazia «estenuante», resistenze a un modo «non classico» di gestire l’attività e soprattutto «una mentalità culturalmente accettata per cui, se non hai conoscenze, sei tagliata fuori». Sotto accusa è lo stato generale del Paese, con il rientro che «non è quasi mai legato a occasioni di lavoro, ma piuttosto al contesto familiare o a ragioni personali», conferma Di Lenna. Livia confessa che «siamo ripartiti per mettere più soldi da parte, prima o poi torneremo, ma non sappiamo se sarà davvero possibile». Anche Claudia sta «trovando difficoltà» e, nonostante si auguri di crescere in Italia la figlia neonata, è consapevole che «il mio compagno farebbe fatica a trovare opportunità all’altezza nel settore videoludico».

Un Paese poco attrattivo

C’è un altro punto da considerare. Il mercato del lavoro è globale, ma «il flusso è unidirezionale», spiega Di Lenna. Lo dimostra il rapporto con i giovani stranieri che decidono di trasferirsi in Italia: per ogni tedesco, belga, francese, olandese o spagnolo tra i 18 e il 34 anni che arriva, circa 9 coetanei italiani si trasferiscono in uno di questi Paesi. Philipp D., 31enne tedesco, un master alla Bocconi, racconta che «era impossibile rimanere a Milano, le offerte nella consulenza erano per stage a 700 euro al mese, con l’italiano come unica lingua. Ho preferito Copenaghen». Anche la Spagna riesce ad attrarre più dell’Italia: per ogni giovane spagnolo che si trasferisce nel nostro Paese, due italiani prendono il suo posto. Enrico S., architetto di 31 anni di Bari, è uno di loro. «Con l’Erasmus Traineeship è capitata l’occasione di entrare in un grosso studio internazionale, e ho capito che mi piace una vita in cui parlo tante lingue e ho continui stimoli». Dopo 7 anni in un comune non lontano da Barcellona, la lontananza si può far sentire nei momenti di indecisione: «Tutti noi espatriati sappiamo cosa significa, dobbiamo ricreare delle radici perché ci diano forza. È un processo difficile, ma che dà anche tanta libertà».

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