Economia
6 agosto, 2025Brand del lusso che si reggono su subappalti e sfruttamento. E chi lotta per condizioni di lavoro migliori rischia di restare disoccupato. Come sta dimostrando il caso Montblanc
«Dopo aver perso il posto, ho trovato solo lavori in nero, dodici ore al giorno, sette giorni a settimana, per 1.200 euro al mese. Sono tornato a lavorare alle stesse condizioni di schiavitù in cui ho lavorato per anni per fare le borse dei marchi del lusso. Quando con i colleghi abbiamo deciso di ribellarci e abbiamo chiesto di lavorare 40 ore a settimana, ci hanno lasciato in mezzo a una strada. Forse qualcuno pensa che mi sia pentito della mia scelta di lottare. Invece no». M.Z., pachistano, 27 anni, è un lavoratore del distretto della moda tra Firenze e Prato. È stato licenziato dalla Z Production, azienda di Campi Bisenzio (Fi) che per anni ha realizzato prodotti per Montblanc, o meglio per Pelletteria Richemont Firenze, sempre parte dello stesso brand. Dopo mesi di lotta, lui e altri suoi cinque ex colleghi connazionali avevano ottenuto condizioni migliori di lavoro e si erano sindacalizzati. Ma a seguito di un calo delle commesse nell’azienda in cui erano occupati due anni fa, per loro il lavoro è finito.
Il primo luglio c’è stata la prima udienza del loro ricorso al tribunale del Lavoro di Firenze nei confronti di tutte le aziende coinvolte, quindi anche del committente principale: un procedimento storico, proprio perché coinvolge non solo l’azienda intermediaria, fornitrice del marchio, ma anche chi appalta e subappalta la produzione. In un sistema di scatole cinesi in cui alla fine ci sono da una parte lavoratori pagati pochi euro all’ora e dall’altra merci costosissime e dividendi da capogiro per azionisti e manager.
«Lo sfruttamento nella filiera dell’abbigliamento è un fenomeno sistemico – dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti – e non può essere risolto interrompendo i rapporti commerciali coi fornitori a rischio: equivale a lasciare i lavoratori più vulnerabili senza lavoro né protezione sociale. Vanno eliminate le cause dello sfruttamento. Montblanc a nostro avviso è corresponsabile delle condizioni di lavoro degli operai della sua filiera: deve risarcire e ricollocare i lavoratori licenziati e discriminati. Come stabilisce la Direttiva europea sul dovere di diligenza ai fini della sostenibilità, le grandi imprese devono rispettare i diritti umani nella filiera e gestire con “diligenza” i rapporti coi propri fornitori per prevenire violazioni e abusi, anziché cessare i rapporti commerciali proprio quando i lavoratori si sindacalizzano e ottengono concreti miglioramenti. E se non sono stati in grado di prevenire gli abusi, i marchi devono riparare al danno causato dalla loro negligenza, con adeguate forme di risarcimento».
La vicenda è lunga e complessa, con querele per diffamazione e richieste di non fare manifestazioni di protesta davanti ai negozi, poi ritirate. Della vicenda si sono occupati anche media internazionali e nazionali. Lo scorso 1° luglio, in concomitanza con l’apertura del caso in tribunale, l’ultimo presidio di fronte a uno dei punti vendita del brand, in pieno centro a Firenze.
Il gruppo Richemont, tra i colossi mondiali della gioielleria, comprende marchi come Cartier e Montblanc. Il brand, famoso per le penne e le borse di lusso, ha sempre respinto le accuse. «La decisione di Z Production di licenziare sei dei suoi lavoratori è stata una scelta autonoma e indipendente dell'azienda – si legge in una nota rilasciata dal gruppo – avvenuta quasi 18 mesi dopo la notifica e 10 mesi dopo la risoluzione del contratto di fornitura fra Pelletteria Richemont Firenze e Z Production. La decisione di risolvere il contratto non è in alcun modo legata alla sindacalizzazione dei lavoratori, è stata presa a seguito di persistenti episodi di non conformità al nostro Codice di condotta fornitori [...] ed è stata dunque una decisione inevitabile e di ultima istanza. Respingiamo ogni accusa ribadendo il nostro costante impegno per il rispetto dei diritti dei lavoratori in tutte le nostre attività e lungo l'intera catena di fornitura».
Resta un tema inevaso: chi sta ai vertici della filiera dovrebbe o potrebbe fare di più? Per Francesca Ciuffi, sindacalista Sudd Cobas, che ha sostenuto dall’inizio della vertenza i lavoratori: «Attraverso le tariffe che concordano con le ditte in subappalto, i committenti determinano le condizioni di lavoro degli operai: non possono non sapere cosa succede nelle fabbriche dei fornitori. In questo periodo stiamo sostenendo uno sciopero a Forlì, nella produzione dei divani. Qui operai in appalto a una multinazionale vivevano nel magazzino dove lavoravano, in una situazione analoga a quelle che spesso vediamo nel settore della moda. Il sistema è simile: non esiste alcuna clausola sociale, così il committente può cambiare fornitore e lasciare a piedi i lavoratori. Per questo il coraggio degli operai che hanno fatto ricorso contro tutta la filiera è un esempio, anche se molto difficile, perché potrebbe fare da apripista ad altri casi analoghi».
Tra i sei operai che hanno fatto ricorso contro le aziende della moda, due persone – una delle quali è M.Z. – hanno attualmente un’occupazione regolare con un contratto congruo, due lavorano ancora sette giorni su sette, uno si è trasferito, un ultimo è disoccupato. Nessuno ha potuto chiedere il ricongiungimento familiare e vivono tutti in subaffitto condividendo la stanza con altre persone. Dietro il “made in Italy” ci sono loro.
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