Economia
30 ottobre, 2025Negli ultimi tre anni, le oltre 100 aziende italiane ancora attive in Russia hanno versato quasi un miliardo di dollari di tasse. Il 40 per cento dei quali finanzia il settore militare
Quasi un miliardo di dollari. Sono le imposte sugli utili pagate negli ultimi tre anni (295 milioni nel solo 2024) dalle società italiane ancora attive in Russia e finite nelle casse del Cremlino. Quasi la metà, il 40 per cento, andranno a finanziare il settore difesa e quindi la guerra all’Ucraina. Nonostante i proclami da parte dell’Italia di sostegno incondizionato al Paese aggredito, di fatto decine di imprese italiane continuano i loro affari in Russia contribuendo a finanziare il settore militare che, prevedono gli analisti, toccherà spese per 156 miliardi di euro nel 2025, equivalente a oltre il 7 per cento del Pil nazionale russo. Secondo il Kse Institute, think tank ucraino indipendente, solo otto società italiane hanno abbandonato il mercato russo, 32 quelle che hanno messo in pausa o ridimensionato le attività in loco, mentre quelle ancora attive sono 103. Tra queste ultime figura anche Ariston. Allo storico marchio marchigiano, sinonimo di impianti di riscaldamento e climatizzazione, era stata sottratta la gestione della controllata Ariston Thermo Rus ad aprile 2024 a seguito di un decreto ministeriale che ne affidava la gestione a una società del gruppo Gazprom.
Lo scorso marzo la Federazione Russa, attraverso un decreto simile a quello dell’anno precedente, ha restituito alla holding italiana il controllo della sussidiaria in quello che, a oggi, rappresenta un unicum tra le oltre 500 società straniere espropriate delle proprie filiali in Russia e che, secondo il Financial Times, è da attribuire a «intense attività di lobbying da parte di personale italiano di alto profilo». Con un comunicato stampa del gruppo, l’Ad di Ariston Paolo Merloni si è detto «molto lieto della decisione delle autorità russe», ribadendo l’intenzione di «riprendere le attività con la nostra leadership locale». «Per ogni dollaro di contributi che finisce nelle casse del Cremlino, quaranta centesimi sono destinati al settore militare», spiega Andrii Onopriienko, vice direttore allo sviluppo del KSE e responsabile del progetto leave-russia.org. Secondo il think tank ucraino, Ariston ha versato 6,4 milioni di dollari in tasse sui profitti tra il 2021 e il 2024, con ricavi per 96 milioni di dollari nell’ultimo anno. A dissuadere Ariston dal tornare nel mercato russo ci ha provato B4Ukraine, una coalizione di realtà della società civile ucraina e internazionale che ha lo scopo di limitare il sostegno economico all’invasione dell’Ucraina.
«Li abbiamo contattati per organizzare un incontro privato e mostrare loro cosa vuol dire fare affari con un governo che è responsabile di crimini di guerra e di un’aggressione illegale ai danni di uno Stato sovrano», spiega a L’Espresso Nezir Sinani, direttrice di B4Ukraine. Ma non è solo una questione economica. Operare in Russia significa facilitare l’arruolamento dei propri dipendenti, mettere a rischio di confisca i propri immobili, affrontare restrizioni sulle valute straniere o rischiare che i contratti vengano annullati e la propria azienda convertita a scopi militari, diventando così uno strumento diretto della macchina da guerra russa. Un impiegato della filiale di Mosca della banca austriaca Raiffeisen è morto sul fronte orientale ucraino a ottobre 2022.
Le aziende si trovano nella difficoltà, da un lato, di dover rispettare le leggi russe e, dall’altro, tutelare i propri dipendenti. L’impossibilità di sottrarsi a un coinvolgimento nello sforzo bellico è riassunto nelle parole di Pirelli la quale, pur avendo sospeso gli investimenti in Russia, è proprietaria della Pirelli Tyre Russia (Ptr) che rimane operativa all’interno della Federazione: «Ptr deve ottemperare alle leggi russe, inclusa quella in merito alla mobilitazione [militare] sulla quale la società non ha alcun potere discrezionale». Recenti emendamenti a una legge federale, infatti, impongono alle società che operano in Russia – comprese quelle straniere – di registrare il personale presso gli uffici di leva e consegnare loro gli ordini di reclutamento, oltre che mettere a disposizione dello sforzo bellico immobili, terreni e mezzi di trasporto. Con queste premesse, «nessun Consiglio di amministrazione credibile può dichiarare di non essere a conoscenza dei rischi economici e legali dell’operare in Russia», spiega Sinani, «e chi sceglie di continuare mette a rischio la reputazione della propria azienda e implicitamente afferma che gli affari vengono prima dei diritti umani e dello stato di diritto». A una prima disponibilità, Ariston ha poi acconsentito a un incontro a patto di firmare un accordo di non divulgazione, di cui L’Espresso ha preso visione: tra gli obblighi imposti a B4Ukraine, quello di non divulgare l’esistenza del colloquio – e dei contenuti discussi – per dieci anni. «Nessun’altra azienda ci ha mai imposto un accordo di riservatezza come condizione per un incontro», conclude Nezir Sinani, «anche perché sta a loro decidere cosa condividere in un eventuale colloquio, e l’impossibilità di rendere pubblici i contenuti avrebbe compromesso il nostro lavoro, così abbiamo rinunciato».
La più recente analisi della Kyiv School of Economics stima in 5,7 miliardi di dollari le tasse sui profitti pagate nel 2024 dalle aziende straniere in Russia. Quasi la metà, 2,6 miliardi, arrivano da società dell’Unione europea. Con 120 milioni di dollari di contributi versati lo scorso anno, tra le top 10 figura Unicredit, l’unico istituto di credito europeo a non aver lasciato la Russia, che nella Federazione ha finanziamenti in corso per un miliardo di euro e generato seicento milioni di utili. Lo scorso luglio il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha paventato il rischio, per Unicredit, di incorrere in sanzioni dell’Ue, nonostante la banca abbia sottolineato come le proprie attività siano state «drasticamente ridotte dall’inizio del conflitto» nel rispetto «del quadro sanzionatorio» vigente.
Dopo anni di sanzioni economiche, la guerra ha spostato gli equilibri del mondo imprenditoriale straniero all’interno della Russia. Nel 2021, un anno prima dell’invasione dell’Ucraina, i Paesi definiti dal Cremlino come “ostili” (Unione europea, Usa, Giappone, Regno Unito, Australia e altri) rappresentavano il 95 per cento del fatturato generato dalle aziende straniere in Russia. Oggi, secondo il Kse, il numero è sceso all’82 per cento. Un calo assorbito soprattutto da società cinesi, passate dal 2,7 per cento nel 2021 al 14 per cento nel 2024. Quanto alla presenza di società straniere – 1.536 lo scorso anno contro le 1.629 del 2021 – secondo Andrii Onopriienko i dati suggeriscono come si sia ormai raggiunto un plateau sotto il quale sarà difficile scendere ulteriormente: «Una porzione considerevole di aziende internazionali continua a generare profitti in Russia, di fatto finanziando il budget federale dell’aggressore». Che fare, dunque, laddove la spinta a uscire volontariamente dalla Russia da parte delle società straniere si è ormai esaurita? Perché la pressione economica da parte dell’Occidente continui a essere efficace «si devono perseguire ulteriori sanzioni da parte dei rispettivi governi verso le proprie società», spiega Onopriienko, così da rimuovere una riserva di ossigeno importante per l’economia di guerra russa, «nonché emanare sanzioni secondarie contro quelle cinesi, indiane e turche» che stanno lentamente ma progressivamente rimpiazzando quelle occidentali.
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