Economia
31 dicembre, 2025Secondo l’economia comportamentale, spesso agiamo contro i nostri interessi pratici. Le piattaforme conoscono questi limiti e li sfruttano per manipolarci e farci spendere
Per scovare il più grande manipolatore di massa non bisogna più accendere la tv. No, basta frugarsi nelle tasche. O guardarsi tra le mani, se stiamo impugnando uno smartphone. Già: là dentro vivono servizi e business miliardari costruiti su tecniche manipolative frutto degli studi sull’economia comportamentale. Disciplina che insegna qualcosa di ovvio adesso; ma che cinquant’anni fa era eresia: noi umani non ci comportiamo come individui economici razionali, il più delle volte. Per via dei nostri limiti, spesso agiamo contro il nostro interesse pratico-razionale. Come passare la notte a fare scrolling sui social network o spendere troppi soldi su giochi o scommesse online. Cedere alle sirene di una pseudo promozione su un negozio e-commerce. O convincerci che un chatbot con intelligenza artificiale ci capisca meglio dei nostri amici.
Per gli studi sull’economia comportamentale Richard Thaler (classe 1945) ha vinto il Nobel per l’Economia nel 2017 e in questi giorni torna in libreria con una nuova edizione del suo storico (1992) “The Winner’s Curse” (la maledizione del vincitore). L’ha scritta insieme al giovane collega Alex Imas (dell’università di Chicago) e aggiornata all’era presente. Entrambi, in un’intervista in videoconferenza a L’Espresso, confermano che le piattaforme digitali sono gli strumenti più potenti mai creati per orientare le nostre scelte. «Hanno una capacità, nuova nella storia dei mercati, di controllare e modificare in modo sistematico l’esperienza dell’utente nel momento in cui questa accade», spiega Thaler.
«In un negozio tradizionale ci sono vincoli fisici. Online invece un negozio può personalizzare tutto quello che ti mostra, in ogni momento. Le piattaforme possono costruire un ambiente informativo su misura per te», dice Imas. Vale per Amazon, per un social network, così come per Google, sempre più media digitale che informa e orienta.
Non è detto, dice Thaler, che questo potere sia contro di noi, «non è per forza un male per il consumatore avere un’offerta personalizzata sui suoi interessi reali. Sarebbe bello e giusto, persino, se il prezzo di un prodotto o un servizio fosse in automatico più basso per un povero e più alto per un ricco». «Il problema – dice Thaler – è tutto nell’allineamento di questo sistema ai nostri interessi. Se è disallineato, prova a sfruttare i nostri bias per farci spendere più di quanto sarebbe nel nostro interesse». I bias sono le nostre vulnerabilità irrazionali, quelle messe in luce dall’economia comportamentale. Come la paura di perdere un’occasione di risparmio, magari inesistente ma pubblicizzata sul negozio. Per trucchetti simili la Commissione europea sta indagando sugli e-commerce cinesi Shein e Temu.
Un altro trucco è sfruttare la nostra inerzia comportamentale. Se cancellare un abbonamento è troppo difficile e l’azione viene scoraggiata con vari ostacoli dalla piattaforma, allora tendiamo a mantenerlo anche contro i nostri interessi economici.
Per questi motivi, l’antitrust degli Stati Uniti, negli ultimi due anni, ha sanzionato Amazon (per l’abbonamento Prime) ed Epic, creatore del famoso videogame Fortnite, che con trucchi simili spingeva i ragazzi ad acquisti indesiderati. La Commissione europea proibisce queste tecniche nel regolamento Digital markets act, chiamandole “dark pattern”. Si deve a Thaler l’apparato teorico necessario per individuarle.
Sotto accusa secondo Imas devono essere in particolare i social network. «Ci sono molte evidenze ormai sulla loro capacità di catturare la nostra attenzione generando dipendenza e in pratica rendendo le persone meno felici». Qualche esperto ha paragonato i social network a slot machine digitali: a ogni like e foto che vediamo, ci danno una scarica di dopamina che ci spinge a un uso continuo, incontrollato. Nel 2024 il capo della Sanità del governo americano Vivek Murthy è arrivato a paragonarli al tabacco, «sono pericolosi per la salute dei giovani». Sempre più autorità se ne stanno convincendo. L’Australia a dicembre è diventato il primo Paese al mondo a vietare i social network sotto i 16 anni di età. Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione (non vincolante) a novembre per fissare misure simili anche da noi. «L’economia comportamentale – dice Imas - ci ricorda che a vincere su di noi è la scelta più facile, quella che ha meno ‘attrito’. Ed è più facile andare al cinema con gli amici o tirare fuori il telefono e guardare un video?». La risposta è scontata.
E ne derivano effetti sociali importanti, nota Imas: «L’ecosistema informativo si frammenta, la polarizzazione cresce perché ognuno può costruirsi un micro-mondo che conferma ciò che vuole credere».
Da notare come i chatbot, simulando amicizia ed empatia, stanno adottando negli ultimi tempi tecniche simili ai social media, per aumentare uso e fidelizzazione. L’economia comportamentale aiuta a riconoscere questi trucchi; ma questa consapevolezza individuale non porta molto lontano. Il motivo è lo stesso di fondo: i nostri bias sono spesso più forti della nostra razionalità, quindi anche di questa consapevolezza. «I rimedi individuali sono fallimentari», riconosce Thaler. «Le sole cose che funzionano sono quelle top down: imposte da autorità o dalle stesse piattaforme». Anche qui, nessuna garanzia di successo, «il proibizionismo americano sull’alcool è stato un flop», dice Thaler; ma la necessità di soluzioni dall’alto è in fondo il riconoscimento dei limiti della nostra forza di volontà quando l’ambiente è progettato per manipolarci.
«Bisogna dare agli utenti più potere sugli algoritmi», dice Thaler. Per esempio aumentandone la trasparenza: «Dovrebbe esserci un modo perché qualcuno, un regolatore, ci entri dentro e ne capisca il comportamento». Un’autorità può farlo con la tv, osserva Thaler. Può capire quali show ci sono. Quali contenuti e valori diffondono. Ma non con i social, «il cui algoritmo è invisibile».
Alcuni di questi principi – trasparenza, possibilità degli utenti di avere voce in capitolo su quello che gli algoritmi fanno con noi e i nostri dati – sono alla base del modo in cui l’Europa ha regolato le piattaforme digitali negli ultimi anni. Ma Thaler e Imas non apprezzano le nostre regole. Le considerano burocrazia inefficace nel contrastare lo strapotere delle piattaforme e a volte anche dannosa, perché rallentano l’innovazione in Europa. «Sull’Ia è sbagliato avere una regolazione pesante. È troppo presto, non si può sapere che forma prenderà l’innovazione. L’Europa rischia di perdere talenti, industrie e competitività», dice Imas.
In realtà, è un punto di vista che sta facendo proseliti anche da noi, ultimamente. La Commissione europea ha appena proposto un pacchetto, il Digital Omnibus, per alleggerire le nostre regole sul digitale, a tutela della competitività europea, come del resto chiesto dall’ex premier italiano Mario Draghi in più occasioni.
Alla fine, c’è poco spazio per l’ottimismo. «Difficile averne su qualunque cosa, quando un presidente (Donald Trump, Ndr.) sta distruggendo lo stato di diritto», dice Thaler. La sola fiducia è nella possibilità di «espandere i modelli economici per incorporare descrizioni più realistiche del comportamento umano e sociale. È essenziale per la prossima generazione di regolazione e di tecnologie», aggiunge. Così, The Winner’s Curse va visto più come manuale civico che come saggio accademico: «Abbiamo una popolazione di esseri umani, quindi assicuriamoci di progettare politiche per esseri umani. Questo è il mio modesto obiettivo».
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