Gli azeri di Baku sono usciti di scena anche perché la realizzazione del rigassificatore è in forse. Jindal è sparito dai radar perché nel frattempo ha comprato un impianto in Slovacchia. Ora il governo bussa alla porta dei cinesi di Baosteel per evitare la chiusura definitiva dell'impianto

Dopo l'incendio del 6 maggio all'altoforno 1 dell'acciaieria di Taranto, l'ex Ilva, il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso ha laconicamente commentato che le trattative per la vendita dell'impianto agli azeri di Baku Steel Company sono a rischio. Più precisamente ha detto: «Se il sequestro dell'altoforno prevederà anche l'inibizione all'uso, dovremo necessariamente prevedere un forte numero di lavoratori in cassa integrazione e una riduzione significativa della produzione». E poi ha aggiunto: «Proprio in queste ore è in corso un negoziato difficile, complesso. Che deve mettere insieme tante cose, fra cui la funzionalità degli impianti. Se non vi è la funzionalità, il negoziato si interrompe e nessuno ovviamente mai scommetterà sulla riconversione industriale e tecnologica di quello che era l'impianto siderurgico più grande d'Europa».

 

L'altoforno 1, uno dei due rimasti in funzione, è stato sequestrato dalla Procura di Taranto senza facoltà d'uso a causa dell'incendio, senza feriti, avvenuto a inizio maggio. Il sequestro è stato convalidato dal pm Francesco Ciardo con tre dirigenti indagati per incendio colposo e getto pericoloso di cose. E anche volendo dissequestrare l'impianto, il pm e i suoi consulenti devono prima garantire che le cause del pericolo siano state tutte rimosse.

Sembrerebbe però che i dubbi di Baku Steel rispetto all'investimento sull'Italia e sull'Ilva siano anche di altro tipo e che l'incendio e il sequestro potrebbero rappresentare un pretesto per far deragliare la trattativa. A quanto risulta a l'Espresso, infatti, Baku ha rallentato le tempistiche dell'intesa perché ha compreso che sussistono delle resistenze, soprattutto da parte del territorio, rispetto alla possibilità di realizzare un rigassificatore al largo di Taranto che servirebbe ad alimentare l'impianto siderurgico, ma non solo. Inoltre, pare che qualcuno a Roma non veda di buon occhio la possibilità che, con il rigassificatore piazzato a Taranto, che integra l’offerta di gas sul mercato italiano (specialmente quella che arriva al paese attraverso il Tap), gli azeri possano diventare un attore in grado di manovrare pesantemente i prezzi e la quantità disponibile di metano sul nostro territorio. E in un momento in cui l'Italia e l'Europa stanno giocando una delicata partita con gli Stati Uniti per ridurre i dazi in cambio di un maggior acquisto di gas liquido da Washington, la presenza di gas azero – paese fortemente legato alla Russia - è di sicuro un elemento poco favorevole al raggiungimento dell'accordo con gli States.

 

Baku, consapevole degli equilibri geopolitici, ha quindi espresso dubbi sul doversi fare carico della gestione dei vecchi altoforni, assai malmessi, visti gli incidenti e l'incendio del 6 giugno.

Dato che il rigassificatore è in forse e che l’impianto dal 6 giugno ha perso la metà della sua capacità produttiva - con la perdita dell’altoforno 1 - Baku si sarebbe ritratta dall'accordo e ora fa leva sul sequestro della magistratura per far saltare l'intesa.

Nel frattempo anche lo sfidante indiano Jindal è definitivamente uscito di scena, avendo completato l'acquisizione dell'acciaieria Vitkovice Steel a Kosice, in Slovacchia e non è quindi più interessata a un altro impianto in Europa. Ecco perché, in base a quanto risulta a l'Espresso, il governo e i commissari starebbero cercando di contattare il colosso cinese Baosteel che, tuttavia, potrebbe subentrare ma senza la copertura finanziaria degli azeri. Il che imporrà un piano lacrime e sangue più duro rispetto a quello che aveva proposto Jindal.

 

In tutto questo, incidentalmente, il sequestro dell'altoforno 1 che offre il pretesto a Baku e al governo di dare la responsabilità di un mancato accordo alla magistratura che, a causa del sequestro, non consentirebbe l'effettuazione delle manutenzioni. Le stesse che, però, non erano state fatte in precedenza, mettendo per l'appunto l'impianto in una condizione di pericolo. Il denaro per l'ambientalizzazione e per la riqualifica dell'impianto, che sono frutto del sequestro effettuato dalla magistratura ai Riva, viene sacrificato per la gestione ordinaria dell'azienda che sta accumulando parecchie perdite. Perdite che andranno ad aumentare perché, con la chiusura di uno dei due altoforni funzionanti, la produzione verrà dimezzata dalle attuali 3,8milioni di tonnellate a circa 1,9milioni di tonnellate, una cifra troppo lontana dalle 6milioni di tonnellate che rappresentano il breakeven dell'impianto, e un volume che non consente di sostenere circa 10mila dipendenti.

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