Economia
23 luglio, 2025La flessione attribuita alle reazioni suscitate dalle uscite di Trump, ma è una valuta capace di offrire rendimenti più alti e maggiore liquidità per gli investitori
Il dollaro ha continuato a deprezzarsi dall’inizio dell’anno, suscitando attese – soprattutto da quanti vanno a traino degli eventi – di una sua ulteriore caduta anche nei prossimi mesi, se non anni.
Se facciamo un passo indietro, che ci piaccia o no, le oscillazioni del dollaro negli ultimi nove mesi hanno seguito quasi unicamente le esternazioni di Trump. Ma non è detto che continuino a farlo.
A partire dall’ottobre del 2024, quando si diffondevano attese di una vittoria di Trump alle presidenziali Usa, le prospettive di maggiori tariffe sui beni importati e di rinnovato sostegno fiscale all’economia americana sospingevano il dollaro verso l’alto di un robusto 10% in termini effettivi – ossia rispetto alle valute dei principali partner commerciali – fino a raggiungere un picco alla metà gennaio dell’anno in corso.
Da allora, quasi in concomitanza con l’insediamento di Trump, il dollaro ha iniziato a scendere, perdendo circa il 12% fino a oggi. Cosa è successo? In linea di principio, Trump ha semplicemente attuato quanto annunciato in campagna elettorale: ha aumentato le tariffe commerciali e reso la politica fiscale più espansiva tramite il “Big, Beautiful Bill”.
La sorpresa negativa per gli investitori è però giunta dalle modalità con cui tali politiche e altre scelte presidenziali sono state declinate e comunicate. Atteggiamenti minacciosi, talvolta ricattatori, hanno generato incertezze e timori nei mercati. Inoltre, gli attacchi alle agenzie federali, in particolare al presidente Powell della Federal reserve hanno instillato il dubbio che queste istituzioni, cruciali per la stabilità economica, possano veder compromessa la propria indipendenza. Ne è seguita un’erosione della fiducia degli investitori nella certezza del diritto e nella solidità istituzionale che regge l’economia americana.
Ne è derivato un rapido incremento della percezione dei rischi legati agli investimenti nel dollaro, con un conseguente calo della affidabilità del suo ruolo quale moneta di riserva internazionale. Di riflesso, i principali gestori di riserve valutarie globali – come le banche centrali asiatiche – hanno ridotto l’esposizione in dollari, aumentando quella in valute europee e in oro, ritenuti più affidabili, sebbene offrano rendimento più bassi (nullo per l’oro).
Tuttavia, il deprezzamento del dollaro, soprattutto nei confronti dell’euro – la valuta della più debole fra le tre macro-aree globali, Usa, Cina ed Eurozona – sembra essersi spinto troppo oltre, su livelli che appaiono eccessivi, ove si considerino gli andamenti dei fondamentali macroeconomici.
Infatti, se il rischio di investimenti negli Usa è effettivamente aumentato a causa di Trump, il loro rendimento atteso permane il più alto fra i Paesi industriali. In questa direzione convergono la crescita dell’economia americana, la sua produttività, la flessibilità del suo mercato del lavoro, gli utili aziendali e i livelli dei suoi tassi di interesse. Inoltre, la liquidità dei mercati finanziari americani rimane di gran lunga più elevata di quella sui mercati europei. Se un errore hanno commesso i mercati, è stato attribuire ex-post la caduta del dollaro anche a motivazioni macroeconomiche, in realtà assenti. In particolare, le attese di una recessione americana – su cui si sono concentrati molti analisti – si sono rivelate infondate. L’economia Usa, pur rallentata rispetto ai ritmi di fine 2024, ha mantenuto una crescita tendenziale robusta, intorno al 2%, ben superiore a quella europea, pressoché stagnante secondo gli indicatori più aggiornati e affidabili. La contrazione del PIL Usa nel primo trimestre e il rimbalzo di quello europeo sono stati effetti temporanei, legati alle attese sulle tariffe americane, destinati a compensarsi nel secondo trimestre, quando il Pil Usa dovrebbe registrare una ripresa e quello europeo una contrazione o al più una stagnazione.
Tenuto conto anche delle attese di accelerazione dei prezzi negli Stati Uniti, di ulteriore disinflazione in Europa e dell’espansione fiscale Usa, si prospettano tassi stabili da parte della Federal reserve e in ribasso ulteriore da parte della Banca centrale europea. Questo scenario comporta un ampliamento del differenziale tra i tassi Usa ed europei, ancor più marcato sui tassi a lunga, con effetti potenzialmente favorevoli per il dollaro.
Le tariffe Usa, al di là del panico e delle modalità aggressive utilizzate da Trump, alla fine amplieranno i divari fra i fondamentali macroeconomici Usa ed Europei, a meno di ritorsioni generalizzate contro gli Stati Uniti, che per ora non si sono manifestate. Anche il “Big, Beautiful, Bill” di Trump, se peggiora le condizioni fiscali Usa di lungo periodo, da un lato è favorevole a una accelerazione ciclica Usa nei prossimi mesi, e dall’altro va visto nel contesto in cui le finanze pubbliche di tutti i grandi Paesi sono in via di deterioramento o già dissestate: quindi non necessariamente un “minus” per la valuta americana.
In conclusione, la caduta del dollaro, pur giustificata nel breve periodo a causa dei comportamenti eterodossi di Trump, appare meno fondata nel medio termine se si considera il quadro degli andamenti economici. Questi, infatti, continuano a privilegiare il dollaro come valuta capace di offrire rendimenti più alti e maggiore liquidità per gli investitori internazionali.
*Economista, docente universitario, fondatore di LB-Macro
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