Economia
7 agosto, 2025La guerra commerciale come strumento politico, in grado di selezionare i Paesi da colpire e anche i settori da terremotare o da salvare. A partire dal Brasile di Lula
No, signor presidente, ancora non rispondono». «Ma come non rispondono… Cosa significa? Insistete». Poche parole piene di stupore e frustrazione. Le raccontano gli stessi protagonisti ai cronisti di Folha de Sao Paulo davanti al Planalto, sede della presidenza del Brasile. Confermano ancora una volta il gioco sottile, un po’ perverso, di Donald Trump nella partita dei dazi con il mondo. Il tycoon non parla con Lula. Non vuole sentire pronunciare neanche il suo nome. Preferisce Jair Bolsonaro che è sotto accusa per tentato golpe e agli arresti in casa. «Lasciatelo in pace, lui e la sua famiglia – posta su Truth – so bene cosa prova, lo hanno fatto anche con me». Il presidente Usa è bravissimo a trattare. Lo ha sempre fatto nella sua vita da imprenditore di successo. Applica lo stesso schema con chi ha davanti. Se non lo umilia, lo deride. Alla fine, ottiene quello che si era prefissato. È successo con l’Europa. Accade con il Brasile.
Il frammento di dialogo tra Lula e il suo vice Geraldo Alckmin avviene a metà luglio scorso, pochi giorni prima che scatti la mazzata dei dazi: 50 per cento su tutte le merci importate dal Brasile, il più alto al mondo dopo la Cina. Se si eccettua il Lesotho che al solo annuncio (poi ridotto al 15, quasi fosse stato uno scherzo) ha dovuto dichiarare lo stato di “disastro nazionale” con la perdita automatica di migliaia di posti di lavoro.
Ma il Brasile non è la piccola enclave del Sudafrica. È un gigante economico e produttivo. Ha un sottosuolo ricchissimo e produce di tutto. Chiede rispetto. Lo chiede Lula sempre più angosciato man mano che si avvicina la fatidica data. Alla fine, il tre volte presidente contatta il New York Times a cui affida un’intervista. «Penso che sia importante che il presidente Trump rifletta su questo – premette il leader della sinistra brasiliana – se vuole una battaglia politica, allora trattiamola come tale. Se vuole parlare di commercio, sediamoci e discutiamone. Non si può mescolare tutto insieme». Lula si riferiva alla campagna che la Casa Bianca sta conducendo, dalla scorsa primavera, a favore dell’ex presidente di estrema destra. Bolsonaro rischia una condanna a oltre 40 anni di carcere. Le due cose, a parere dell’attuale presidente del Brasile, andavano distinte. Un conto i dazi, un conto le implicazioni giudiziarie di chi ha messo a rischio la tenuta democratica del Paese. Gli Usa, del resto, rappresentano dopo la Cina il secondo partner commerciale; ma la più grande economia dell’America Latina non dipende dal mercato americano. Anzi: gli Stati Uniti vendono miliardi di dollari in più al Brasile di quanti ne importino. L’anno scorso hanno registrato un surplus commerciale di 7,4 miliardi di dollari, su un interscambio di circa 92.
Tutto sembra perduto. Invece, ecco la sorpresa, neanche 24 ore dopo la scadenza fissata da Trump. I dazi restano al 50 per cento, con vistose eccezioni. Al provvedimento viene allegato un lungo prospetto in cui sono indicati 694 articoli di vario genere: 565 appartengono al settore aeronautico, 76 al carbone, al gas naturale e ai suoi derivati, il resto a prodotti alimentari e manifatturieri: sono esentati dalla tassa. Rappresentano il 45 per cento di quelli colpiti.
Industriali e politici tirano un sospiro di sollievo. Poteva andare peggio. Forse, pensano in molti, non sarà il disastro annunciato. Ma è veramente così? Difficile valutarlo. Perché la maggior parte delle ricadute economiche si ripercuoterà comunque su alcuni settori chiave. Il caffè è un esempio significativo. Il Brasile, con il 30 per cento, è il maggior esportatore mondiale e importante fornitore del mercato Usa. La sua economia è alimentata da un misto di consumi interni ed esportazioni agricole di prodotti come olio, soia e carne bovina. Rappresentano un quinto del Pil. Gli allevatori e i trasformatori di carne bovina si preparano a uno scenario disastroso. Lo conferma ai giornalisti Roberto Peroso, presidente dell’Associazione brasiliana delle industrie esportatrici di carne. «Abbiamo avuto una forte domanda – ammette – ma non esiste un altro mercato in grado di assorbire tutto questo».
Si frega le mani il presidente argentino. Javier Milei ha un ottimo rapporto con Trump. E il suo Paese ha una delle migliori carni al mondo. Si è già fatto avanti. Si appresta a stringere un accordo vantaggioso: l’80 per cento dei prodotti importati negli Usa non avranno dazi, per il resto si limiterà a un 15. La notizia fa precipitare al 27 per cento il consenso per Lula. I brasiliani sono perplessi. Hanno apprezzato l’atteggiamento fermo del loro presidente. Ha difeso la sovranità e l’orgoglio nazionale. Adesso ha perso la partita. Eduardo Bolsonaro, l’ex deputato più votato al Parlamento, passa all’incasso. Si vanta di aver attenuato la portata del provvedimento. Dal marzo scorso si è dimesso dal Congresso e si è trasferito a Washington. Si dedica alla difesa del padre. «Sarà l’obiettivo della mia vita», giura. Donald Trump lo ha accolto come un figlio; ascolta i racconti dell’ex parlamentare su quanto, a suo parere, accade in Brasile. «Una caccia alle streghe», conclude il presidente Usa.
Il clima in Brasile era pesante da settimane. Nel Paese si respirava un’aria mista di scoramento e rassegnazione. Si osservavano le mosse degli altri Stati in giro per il mondo e si cercava di capire come e dove agire. Gli industriali avevano già messo a punto un piano di emergenza. Prospettavano, comunque andasse, una caduta del sistema produttivo con centinaia di migliaia di licenziamenti nei settori vitali. Lula resisteva. Minacciava contromisure analoghe. Ma voleva evitare a tutti i costi un braccio di ferro che rischiava di perdere, con ricadute anche interne. Aveva incaricato il suo vicepresidente e ministro dell’Industria e del Commercio di guidare i negoziati. Geraldo Alckmin, un veterano della politica, aveva cercato di calmare i rappresentanti dei settori più colpiti ma non era riuscito ad aprire un dialogo con Trump. Ci era riuscito con il segretario al Commercio di Trump, Howard Lutnick. Una telefonata di un’ora. Il clima restava freddo, nessuno progresso tangibile. E Lula, da parte sua, si rifiutava di alzare il telefono per chiamare e sentirsi dire che non c’era nessuno. Il padre della sinistra latinoamericana sapeva che era inutile: la minaccia aveva un chiaro significato politico più che commerciale. L’aumento dei dazi era una chiara ritorsione per il processo al leader della destra estrema brasiliana. Lo aveva detto lo stesso Trump in una lettera personale che gli aveva inviato. Lula aveva reagito definendo «inaccettabile» l’interferenza della Casa Bianca nel sistema giudiziario brasiliano. «La motivazione politica alla base delle misure prese viola la sovranità nazionale e il rapporto storico tra i due Paesi», aveva detto. I giudici del Supremo non si erano fatti intimidire. Ma davanti alle restrizioni imposte a Jair Bolsonaro, Trump aveva deciso di sferrare una nuova offensiva. Ha preso di mira Alexander de Moraes, il giudice che più di altri si è esposto sin dal gennaio del 2023, salvando il Paese da una svolta autoritaria. Se oggi per molti è considerato un eroe e paladino a difesa della democrazia, in passato era considerato una figura controversa, protagonista di misure perfino autoritarie. Trump lo ha voluto colpire come bersaglio della campagna a favore del suo amico Jair. Il Dipartimento del Tesoro ha varato una serie di sanzioni nei suoi confronti sulla base del Global Magnitsky Act, una misura di solito destinata a punire gli stranieri accusati di gravi violazioni dei diritti umani o di corruzione. Gli ha revocato il visto statunitense e ha fatto congelare tutti i suoi beni negli Usa. Il provvedimento è stato esteso a tutti gli altri 8 membri del Supremo.
Stesso trattamento per il Canada. Trump non sopporta il primo ministro Mark Carney. Lo chiama “governatore” del 51° Stato, da inglobare sotto la bandiera a stelle e strisce. Aveva promesso tariffe del 25 per cento, le ha alzate al 35. L’industria automobilistica è una componente fondamentale dell’economia canadese. Sebbene sia colpita da dazi al 25, c’è rischio di una paralisi. Così per l’acciaio e l’alluminio, penalizzati con tasse del 50 per cento, di cui Ottawa è il principale fornitore estero degli Usa. La colpa di Carney? Fa inondare di fentanyl gli Usa. Ma è una bugia. I dati lo smentiscono. È una scusa che regge. Opposto l’atteggiamento con il Messico. Trump stima la presidente Claudia Sheinbaum che è riuscita a tenergli testa. È una donna, fredda e pragmatica. La sua formazione da fisica e ingegnere ricercatrice aiuta. Loro si sentono al telefono. L’ultima è stata «molto buona». Donald ha deciso di concedere altri tre mesi alla sua vicina. Niente dazi, per il momento. Meglio trattare ancora. Come piace a lui.
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