Economia
17 settembre, 2025Il nuovo studio realizzato da Itinerari Previdenziali in collaborazione con Cida denuncia una svalutazione strutturale delle pensioni medio-alte, che danneggia ancora una volta soprattutto il ceto medio. Una lunga storia di tagli che colpisce proprio quegli 1,8 milioni di pensionati che hanno versato più tasse e contributi, minando la fiducia nel patto generazionale
Il mancato adeguamento delle pensioni all'inflazione costa al ceto medio 13 mila euro a testa. A dirlo è il report di Itinerari Previdenziali che, insieme a CIDA ha calcolato la perdita della mancata perequazione delle pensioni prevista nella legge di Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2024 e confermata nella legge pluriennale per il triennio 2024-2026. Complice l'elevata fiammata inflazionistica degli ultimi anni, la stretta ha colpito come mai prima d'ora i pensionati con trattamenti sopra i 2.500 euro lordi (meno di 2.000 euro il netto).
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Secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, la perdita legata alla mancata rivalutazione sarebbe quantificabile nei prossimi 10 anni in almeno 13mila euro; valore destinato a salire progressivamente fino ai 115mila per i percettori di assegni oltre i 10mila euro lordi: 6.000 circa il netto). Un provvedimento iniquo che, “lungi dal premiare il merito”, penalizza proprio chi ha più contribuito al sistema, e peraltro non esente da possibili profili di incostituzionalità, con particolare riferimento alle quote di pensione calcolate con metodo contributivo, il quale prevederebbe la rivalutazione piena degli assegni.
È quanto emerge oggi nella conferenza stampa di presentazione dell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “La svalutazione delle pensioni in Italia”: studio che analizza gli effetti sulle rendite dei meccanismi di rivalutazione delle pensioni applicati negli ultimi trent’anni, concentrandosi soprattutto sulle novità introdotte dalle più recenti manovre finanziarie.
«In trent’anni le pensioni medio-alte hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto: una pensione da 10mila euro lordi al mese ha visto svanire quasi 180mila euro, l’equivalente di un anno intero di assegno. È il simbolo di un sistema che punisce chi ha dato di più, mortifica i contribuenti più fedeli e incrina il legame di responsabilità tra generazioni – ha commentato Stefano Cuzzilla, presidente di Cida –. Le pensioni non sono un privilegio, sono salario differito, il frutto di una vita di lavoro e tasse pagate. Sono anche il più grande patto intergenerazionale che un Paese possa stipulare: chi lavora oggi sostiene chi ha lavorato ieri, nella certezza che domani il proprio impegno sarà riconosciuto. Chiediamo una scelta politica chiara: regole stabili, certezza del diritto e rispetto del merito. Perché senza fiducia non può esserci futuro né per i pensionati né per i giovani che oggi contribuiscono al sistema».
La storia delle perequazioni in Italia è travagliata: «Rispetto alle persone in età attiva – ha spiegato il professor Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e curatore dello studio – i pensionati hanno meno possibilità di difendersi dall’inflazione, tanto che il mantenimento del loro potere d’acquisto è affidato quasi esclusivamente ai meccanismi di indicizzazione: ecco perché sarebbe innanzitutto importante avere regole stabili nel tempo e, ancora di più, eque».
Eppure, malgrado l’avvicendarsi di esecutivi di varia appartenenza politica e tecnica, negli anni tagli, blocchi e “contributi di solidarietà” si sono susseguiti in modo sistematico determinando una perdita crescente del potere d’acquisto anche del 10-12% nell’arco di un decennio, e soprattutto diventando più una leva contabile che uno strumento di giustizia previdenziale.
I numeri delle svalutazioni più recenti
Con il 2022 il quadro sembrava in realtà essersi fatto più favorevole. Scaduta nel dicembre 2021 la disciplina transitoria introdotta dalla legge n. 147/2013 (più volte rinnovata), è stato infatti ripristinato lo schema originariamente stabilito dalla normativa del 1996, che prevedeva una rivalutazione a scaglioni al 100% dell’inflazione per la quota di pensione di importo fino a quattro volte il trattamento minimo Inps (per il 2022 pari a circa 525 euro al mese); al 90% dell’inflazione per l’importo compreso tra quattro e cinque volte il trattamento minimo; al 75% dell’inflazione oltre 5 volte il trattamento minimo.
Con l’occasione della successiva manovra finanziaria, il governo presieduto da Giorgia Meloni è però intervenuto sul biennio 2023-2024, prevedendo un meccanismo che, se da un lato rivalutava pienamente le pensioni sociali, gli assegni sociali e le pensioni al minimo (prevedendone addirittura un ulteriore incremento straordinario del’1,5%, elevato al 6,4% per i pensionati di età pari o superiore ai 75 anni, per il 2023, e del 2,7% per il 2024), dall’altro peggiorava lo schema di rivalutazione delle prestazioni oltre cinque volte il trattamento minimo. Nel dettaglio, le percentuali di rivalutazione previste sono state: del 100% per i beneficiari di prestazioni fino a 4 volte il minimo, incrementato appunto di un punto e mezzo percentuale in più rispetto all’inflazione effettiva; dell’85% per le pensioni da 4 volte a 5 volte il minimo; del 53% per gli assegni tra le 5 e le 6 volte il minimo, al 47% tra le 6 e le 8 volte, al 37% tra le 8 e le 10 volte e al 32% per gli importi superiori. Valore, quest’ultimo, ulteriormente ridotto al 22% per l’anno successivo, quando le modifiche alla perequazione hanno in effetti riguardato i soli percettori di assegno superiore le 10 volte il Trattamento Minimo.
Il nuovo studio realizzato da Itinerari Previdenziali in collaborazione con CIDA denuncia una svalutazione strutturale delle pensioni medio-alte, che danneggia ancora una volta soprattutto il ceto medio. Una lunga storia di tagli trasversali e continui, che colpisce proprio quegli 1,8 milioni di pensionati che hanno versato più tasse e contributi, minando la fiducia nel patto generazionale.
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