Mondo
17 settembre, 2025Smentendo se stesso e i predecessori, ha inferto un colpo durissimo a un’economia in crescita e compromesso i rapporti con Delhi. Un assist inatteso per la Cina di Xi Jinping
Cooperazione rafforzata nei settori militare, economico, geostrategico, scientifico. Patto commerciale per il libero scambio fra i due Paesi con la valorizzazione delle correnti di beni e servizi. Creazione di un solido polo di alleanze in tutto il quadrante Indo-Pacifico da contrapporre all’asse di influenza della Cina. Era lo stato dell’arte aggiornato all’inizio di quest’anno – sul punto di materializzarsi negli accordi operativi - nei rapporti fra Stati Uniti e India. Una relazione faticosamente costruita in trent’anni di presidente in presidente, da Bill Clinton a George W.Bush, da Barack Obama a Joe Biden passando senza soluzione di continuità addirittura per il primo mandato di Donald Trump. Il tutto mentre cresceva l’assertività di Pechino. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden e architetto della strategia per l’India, ha scritto su Foreign Affairs che «i tempi erano maturi per stringere ulteriormente i rapporti, che invece adesso vengono brutalmente ridimensionati».
Nelle ultime settimane del mandato di Biden, ad esempio, erano state scritte le bozze di un’intesa formale fra India e Usa, la prima nel suo genere, per valorizzare i rispettivi punti di forza nell’intelligenza artificiale. Ed era vicina una “strategic partnership” per rimuovere gli ostacoli per scienziati, ingegneri, imprenditori, ricercatori dei due Paesi e permettere loro di lavorare insieme nelle aree di priorità: processi per i visti accelerati, fondi di investimento e venture capital comuni, rimozione dei controlli sull’export, stimoli alla collaborazione.
Niente più di tutto questo. Ancora una volta la realtà è capovolta. La furia iconoclasta di Trump, che ha devastato a colpi di dazi l’ordine economico mondiale per sostituirlo con un indefinito caos di minacce e arroganze, ha riportato indietro l’orologio della storia. È bastato un tratto di pennarello in calce all’ennesimo ordine esecutivo, per disintegrare il paziente lavoro di anni e fare alla Cina il più insperato dei regali. Il presidente ha imposto a New Delhi dal 27 agosto un dazio del 50 per cento sul 75 per cento delle importazioni indiane. È una supertariffa, il doppio di quella tabellare annunciata nel “Liberation Day” – già molto elevata per essere un partner d’elezione – motivata come “sanzione secondaria” perché l’India acquista il petrolio russo sottoposto a sanzioni. «Trump ha fatto evaporare in un batter d’occhio più di un decennio di strategia estera americana volta a fare dell’Indo-Pacifico il cardine del contenimento della Cina», spiega Nicola Missaglia, analista dell’Ispi. Per l’economia indiana è un duro colpo, sufficiente – scrive in un report la Morgan Stanley – a sottrarre lo 0,8 per cento di crescita del Pil, che era prevista dal Fondo Monetario nel 6,5 per cento nel 2025, uno dei più alti tassi di sviluppo al mondo. Tutti i parametri sono in crescita, «dall’indice Pmi manifatturiero che ha raggiunto in giugno il massimo da 14 mesi a 58,4, agli investimenti pubblici infrastrutturali che nello stesso mese sono saliti del 54 per cento su base annua», puntualizza Bhuvnesh Singh, gestore del fondo Comgest Growth India. «L’introduzione dei dazi Usa ha provocato un’alta volatilità dei mercati».
Su una realtà in forte spinta, insomma, si è abbattuto il ciclone Trump. Riflette Stefano Silvestri, decano degli esperti di geopolitica, già sottosegretario alla Difesa e oggi direttore di Affarinternazionali.it: «Trump non ha considerato il rigoroso nazionalismo indiano, incarnato oggi dal premier Narendra Modi ma risalente agli anni della guerra fredda, quando l’India era a capo del movimento dei non-allineati a fianco dell’Egitto di Jamal Nasser e della Jugoslavia di Josip Tito. Non accettavano, allora come adesso, un mondo dominato a bacchetta da un solo, o due, all’epoca, uomini forti. Ma quanto più Trump aggredisce verbalmente l’interlocutore indiano, che era finora trattato con il massimo dei riguardi, tanto più costui, dotato di un carattere fiero e suscettibile, si irrigidisce e rimane fermo sulle sue posizioni». L’India afferma che ha bisogno del greggio russo per finanziare la sua crescita, e visti i volumi in questione è difficile sostenere il contrario.
«Da quando è cominciata la guerra in Ucraina – spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia – New Delhi ha aumentato da zero al 37 per cento del suo fabbisogno la dipendenza dal petrolio russo. Significa che acquista dalla Russia 2,7 milioni di barili al giorno, con uno sconto sulla quotazione ufficiale che è arrivato fino a 20 dollari al barile e ora, con le quotazioni calanti, non è inferiore a 7-8 dollari (ultima quotazione del Brent: 65,5 dollari, ndr). Parliamo della varietà Ural, meno pregiato di quello mediorentale ma idoneo a far marciare acciaierie e industrie pesanti». Certo, ammettono unanimi gli esperti, si finisce con l’alimentare la macchina da guerra (Bloomberg calcola che l’India abbia pagato a Mosca finora 129 miliardi di dollari per il petrolio), però è difficile entrare nel merito di scelte dei singoli Stati per quanto la Russia sia colpevole oggettivamente di un’aggressione sanguinaria.
Trump e i suoi fedelissimi non hanno mancato di condire il superdazio con la consueta raffica di epiteti e insulti. «L’economia indiana?», si è chiesto provocatoriamente il presidente. «Mi risulta che sia praticamente morta, di sicuro il suo contributo all’interscambio con l’America è risibile». E Peter Navarro, vessillifero delle sparate più clamorose, ha definito il conflitto in Ucraina «la guerra di Modi» e l’India «la lavanderia del Cremlino». Insomma, la tensione alimentata come un falò con il liquido infiammabile. La risposta l’ha data lo stesso Modi partecipando il 31 agosto, per la prima volta da otto anni, al forum della Sco (Shanghai Cooperation Organisation) a Tianjin, Cina settentrionale, a fianco del presidente cinese Xi Jinping, di quello russo Vladimir Putin, di quello bielorusso Aleksandr Lukašenko e di una ventina di altri capi di Stato e di governo i cui regimi non sono degli esempi di democrazia. Ma tutte le mosse sono state accuratamente studiate. Modi – alla pari del leader turco Recep Tayyip Erdogan che pure era presente a Tianjin – non ha partecipato il 3 settembre alla più grande parata militare mai organizzata a Pechino, costata – informa la Reuters – la cifra record di cinque miliardi di dollari: diecimila militari in marcia al passo dell’oca, l’Esercito popolare di liberazione che sfoggia le sue armi più potenti, Xi Jinping vestito come Mao Tse-tung, il dittatore nordcoreano Kim Jong-un che si è unito all’ultimo all’allegra brigata giungendo direttamente a Pechino a bordo del suo mitico treno-fortezza da 60 vagoni blindati.
Anche senza la ciliegina finale della parata, il summit di Tianjin ha delineato le nuove alleanze di New Delhi. «A questo punto mi sembra difficile che si torni indietro, anzi lo stimolo inviato da Trump ha accelerato la formazione degli schieramenti nel nuovo ordine economico, che vanno in direzione diametralmente opposta a quanto volevano le amministrazioni americane fino a quella attuale», conferma Ferdinando Nelli Feroci, già ambasciatore all’Onu e commissario europeo per l’Industria.
Durante il vertice, Modi ha invitato Putin in India per il prossimo dicembre. E ha anche fatto passi avanti per un altro fronte caldo, il confine indo-cinese, segnato da una lunga disputa sul confine himalayano, da controversie commerciali e dal sostegno della Cina al Pakistan. Da Tianjin è partito il disgelo. Lo stesso Xi ha affermato che i legami con New Delhi potrebbero essere «stabili e di vasta portata» se entrambi si considerassero partner e non più rivali. «É tempo che il dragone e l’elefante danzino insieme».
Durante l’incontro, Putin, Xi e Modi sono stati visti chiacchierare amabilmente: «Un’immagine potente che segna la fine di decenni di sforzi diplomatici volti a fare dell’India un contrappeso strategico all’ascesa cinese, e quello che è assurdo è che Trump ha spianato la strada», scrive Michael Froman, presidente del Council for Foreign Relations. Tutto ciò non esclude una serie di complesse controversie in corso. Sui territori contesi del Tibet, l’ultima riguarda il progetto “Motuo Hydropower Station”, una gigantesca diga nel cuore dell’Himalaya, nella regione dell’Arunachal Pradesh al centro del Tibet, sotto controllo cinese fin dai tempi della nascita della Repubblica Popolare il 1° ottobre 1949 ma che l’India non ha mai smesso di rivendicare. Si tratta di un impianto idroelettrico in grado di produrre tre volte l’energia generata dalla diga delle “Tre gole”, sempre in Cina, dove dal 2012 vengono creati 22.700 Megawatt di energia: per confronto, informa il think-tank specializzato Lowy Institute, è quattro volte quanto generato dalla centrale nucleare di Kori in Corea del Sud, la più potente del mondo. Di fronte a quest’ennesimo sfoggio di potenza, New Delhi non vuole perdere la battuta. E ora Trump ha apparecchiato con piatti d’argento la nuova alleanza a tre, Cina-India-Russia. Proprio un capolavoro.

LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Nuovo ordine - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 12 settembre, è disponibile in edicola e in app