Il Presidente della Repubblica è il garante dell’unità in un paese diviso e disuguale. Per questo la decisione sul nuovo nome per il Colle va strappata ai giocatori del Quirinal Game, i professionisti delle stanze chiuse, e riportata nel dibattito pubblico

In tutta questa lunga e estenuante corsa al Quirinale c’è una Grande Assente. Si chiama opinione pubblica, società civile, partecipazione democratica. Mai un’elezione presidenziale italiana è stata così attesa. E mai è avvenuta in un simile vuoto di dibattito. Tra i commentatori, i principali editorialisti e opinionisti, è visibile in controluce lo schierarsi con l’uno o con l’altro candidato, soprattutto pro o contro il candidato per ora unico, il presidente del Consiglio Mario Draghi. A bloccare la possibilità di un suo trasferimento al Quirinale c’è un blocco composito che va dai tradizionali oppositori, quelli che «Mario-Draghi-non-capisce-un-c.» (Marco Travaglio dixit), ai fans di Silvio Berlusconi, ai sostenitori di un Draghi for ever, ma a Palazzo Chigi, non al Quirinale.

 

Silente e distante, distratta appare la società italiana, alle prese in questo inizio anno con lo sgradito ritorno di restrizioni, tamponi, l’insicurezza sulla vita quotidiana che è il contesto dell’ansia del vivere nelle azioni più minute e quotidiane. Eppure la scelta del presidente va strappata ai giocatori del Quirinal Game, i professionisti delle stanze chiuse e fumose, e riportata nel dibattito pubblico, come proviamo fare noi de L’Espresso con la forma delle lettere al futuro presidente, uomo o donna che sia. Considerare la scelta del presidente della Repubblica un momento centrale della nostra vita democratica e decisiva per gli interessi nazionali. Chiedersi quale sia per l’Italia, in questo momento storico, l’interesse nazionale. Cambiare punto di vista: interrogarsi non soltanto sul “chi” va al Quirinale. Ma anche sul “per chi”. E sul perché, per fare cosa.

 

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Un anno fa il passaggio dei poteri alla Casa Bianca da Donald Trump a Joe Biden fu segnato dall’episodio più oscuro degli ultimi decenni di democrazia americana, l’attacco a Capitol Hill, l’irruzione dei trumpisti nel Parlamento di Washington, «un tentativo di colpo di Stato di violenza inaudita», lo definisce Lawrence Wright con Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni. Nel 2022 sarà eletto il presidente francese, con Emmanuel Macron candidato a succedere a se stesso all’Eliseo secondo le regole dettate dalla Costituzione della Quinta Repubblica voluta da Charles De Gaulle, che il socialista François Mitterrand definì «un colpo di Stato permanente» prima di avvantaggiarsi in prima persona dello status di monarca repubblicano per due mandati e quattordici anni. In Italia il presidente non ha poteri esecutivi, ma è ben lontano dall’essere una figura di pura rappresentanza, «a more cerimonial job», di cui ha parlato l’Economist per stigmatizzare la possibilità che Draghi possa trasferirsi da Palazzo Chigi al Colle. E non soltanto perché per lui, e solo per lui, nella Costituzione repubblicana viene spesa la parola capo. Articolo 87: il presidente della Repubblica è il capo dello Stato. Un capo senza poteri esecutivi, quasi un rebus. È per questo che i principali studiosi della Costituzione hanno parlato di «enigma» a proposito dell’inquilino del Quirinale. Così come enigmatica è la sua modalità di elezione. Candidature sussurrate, assenza di dibattito pubblico, manovre, tradimenti, il voto segreto ad orchestrare il tutto. Più simile a un misterioso conclave che a una scelta democraticamente trasparente.

 

In anni recenti l’organo più alto di vigilanza repubblicana ha provato a mettere ordine. Nel 2013 la Corte Costituzionale deliberò a proposito dell’uso delle intercettazioni del presidente Giorgio Napolitano, a colloquio con l’ex senatore Nicola Mancino, che la procura di Palermo intendeva valutare per l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. La Consulta rigettò la richiesta della procura siciliana, ma nel farlo andò oltre l’occasione e definì in modo formale, come non era mai stato fatto prima, «il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana». Con i suoi limiti, ma anche con un raggio di azione piuttosto ampio.

 

Il presidente della Repubblica, si legge nella sentenza 1/2013, «è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche». Al di sopra e al di fuori. Il presidente è l’opposto del notaio che ratifica le decisioni prese da altri. Rappresenta l’unità nazionale, come scrive la Costituzione, «non soltanto nel senso dell’unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, nel senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica». Tutti i poteri del presidente, prosegue la sentenza della Consulta di nove anni fa, «hanno lo scopo di consentire di indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il loro funzionamento, oppure, in ipotesi di stasi o di blocco, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali. Tali sono, ad esempio, il potere di sciogliere le Camere, per consentire al corpo elettorale di indicare la soluzione politica di uno stato di crisi, che non permette la formazione di un governo o incide in modo grave sulla rappresentatività del Parlamento; la nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri, per consentire l’operatività del vertice del potere esecutivo».

 

Il presidente della Repubblica può bloccare o accelerare. È «un organo di moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri», in caso di «esorbitanze o inerzia». In entrambi i casi interviene. Con la forza della istituzione e con le sue personali convinzioni. «Una bussola interna al sistema», ha scritto il costituzionalista Andrea Manzella. Un motore e un fattore di equilibrio del sistema, soprattutto quando esercita i suoi due principali poteri: la nomina del presidente del Consiglio e lo scioglimento anticipato delle Camere.

 

Oggi il sistema si trova a questo bivio. Confermare questo ruolo presidenziale oppure negarlo. Si può negare la funzione del capo dello Stato in molti modi. Per esempio scartando dall’elenco dei candidati i nomi più autorevoli per ripiegare su figure scialbe, sbiadite, ripescate quasi per caso dall’oblio, che avrebbero il significato di non intralciare la voglia di rivincita dei partiti del centro-destra che si immaginano giù vincitori delle prossime elezioni politiche: sarebbe questo il senso di candidature come quella di Letizia Moratti o addirittura di Marcello Pera, che già nel 2006, da presidente del Senato uscente, era stato invocato per il Quirinale dai suoi sostenitori e fans, non tanti in verità, imbarcati a bordo di un treno affittato per l’occasione e ribattezzato dagli organizzatori Occidente Express, su vagoni dai nomi fantasiosi: Europa e Identità, Occidente è civiltà, Io amo l’Occidente... Ma la funzione del capo dello Stato sarebbe indebolita anche se si legasse la scelta del nome alla garanzia di un mandato a tempo, due o tre anni e poi via, avanti un altro, mentre la durata di sette anni prevista dalla Costituzione «è uno dei modi per non concentrare tutto il potere nelle mani di una maggioranza in un certo periodo di tempo», come ha scritto Sabino Cassese (Corriere della Sera, 28 dicembre): in tanti, stando ai boatos di Palazzo, si avvicinano in questi giorni a Giuliano Amato nel suo ufficio di giudice della Corte costituzionale con questa suggestione. La tentazione di un mandato a tempo che ricorre nei tanti conversari di queste settimane tra il futuro presidente della Consulta e i capicorrente.

 

Il ruolo del presidente, infine, sarebbe calpestato dalla scelta del nome più divisivo in circolazione. Silvio Berlusconi nel 2013, in un comizio a Bari, dichiarò che avrebbe lasciato il Paese se fossero stati eletti al Quirinale Rosy Bindi e soprattutto Romano Prodi: per far cadere il suo governo, una maggioranza che anche se di poco aveva vinto le elezioni del 2006, Berlusconi consegnò tre milioni di euro al senatore Sergio De Gregorio, che era stato eletto nel centro-sinistra nel partito dell’ex pm Antonio Di Pietro. Corruzione impropria, come è stato riqualificato il reato poi prescritto in Cassazione (De Gregorio invece ha patteggiato una condanna di venti mesi), ma pur sempre corruzione. Non è il caso qui di ripetere la stessa minaccia berlusconiana di abbandono del Paese a parti invertite.

A noi de L’Espresso basterà ripubblicare quello che di lui ha scritto Claudio Rinaldi. Ma l’elezione di Berlusconi al Quirinale a colpi di maggioranza sarebbe un salto all’indietro in un buco nero, la conclusione trionfale della carriera politica del Cavaliere e l’esito più drammatico per la Repubblica italiana che tornerebbe in ostaggio dei sodali di Arcore, come si sta vedendo in questi giorni. Una candidatura che procede tra lusinghe e ricatti, offerte di cariche e minacce di rompere la coalizione di centro-destra se Matteo Salvini e Giorgia Meloni dovessero dimostrarsi poco entusiasti di sostenere Silvio per il Quirinale (come in effetti sono). Il più moderato sulla sua candidatura sembra il diretto interessato. Forse Berlusconi sa che può giocarsi la conclusione della sua parabola nel senso dell’unità nazionale e non di nuovo sulla rottura. E allora in quel caso la sua scelta sarebbe obbligata: fu lui a nominare Draghi alla Banca d’Italia, a sostenerlo per la presidenza della Banca centrale europea, a muoversi in prima persona per sostenere il tentativo di formare il governo nel febbraio 2021.

 

Sul nome di Draghi ruota l’intera partita presidenziale. L’ex banchiere centrale in pochi mesi è diventato il perno del sistema. Anche sul piano internazionale: le difficoltà di Biden, i primi passi del nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholtz, le tensioni nel Mediterraneo dopo il rinvio del voto in Libia, la costruzione di un nuovo ruolo dell’Europa stretta tra la fedeltà atlantica e l’esigenza di non consegnare la Russia alla Cina disegnano il perimetro dell’azione di Draghi. Draghi è il vertice di un sistema tutto da ricostruire. In questo condivide un destino simile a illustri leader della storia repubblicana, da Alcide De Gasperi a Aldo Moro, che furono politicamente insostituibili ma mai eletti al Quirinale. Mentre il trasferimento di Draghi al Colle rappresenta una necessità: per lui e per un sistema che ancora non c’è. Per l’interesse nazionale.

 

Nelle lettere che pubblichiamo sull’Espresso Michele Serra, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Donatella Di Cesare, Francesco Occhetta, Djarah Kan, Diletta Bellotti, Pietro Turano, Viola Ardone, Franco Arminio, Mauro Biani definiscono cosa sia l’interesse nazionale, l’interesse generale, il bene comune, con diversi punti di osservazione. Una società italiana in trasformazione, che richiede nuovi diritti, spesso dirompenti sul tessuto costituzionale, e nuove regole di convivenza comune.

 

L’unità e la diversità sono due movimenti della vita e della politica. Il presidente, la presidente, è il vertice di questi due movimenti, ne è espressione, garantisce che il tessuto unitario del Paese non si spezzerà per le spinte di disgregazione e di frammentazione e che al tempo stesso le domande di cambiamento non resteranno senza risposta. Il presidente è il vertice delle istituzioni, che sono la stabilità di un Paese, la certezza che la casa di tutti è solida e profonda, che non sarà spazzata via dai venti e dalle maree, e insieme rappresenta la promessa che quella solidità non diventerà una barriera, un fortino assediato, chiusura, sordità verso le rivendicazioni sociali e civili, i disagi, le sofferenze.

 

È questa la democrazia, il rapporto tra lo Stato e la società, come ci ha insegnato in questi sette anni Sergio Mattarella, una tensione tra ciò che è costituito e ciò che va cambiato perché c’è il movimento delle cose che va interpretato, con il punto di vista del riformista che spesso si trova in solitudine, come diceva Federico Caffè, così come in solitudine nel momento delle decisioni si ritrova l’inquilino del Quirinale. Una ragione di più per strappare la scelta presidenziale al gioco di società del Palazzo e del salotto buono delle cancellerie internazionali e dei poteri finanziari. E far respirare la democrazia che è confronto, conflitto civile e responsabilità.