La legge Zan e la giornata contro l’omofobia. Gli invisibili in piazza per tutelare il lavoro. Volti diversi di un’unica lotta

Il 17 maggio 1981, quarant’anni fa, gli italiani votarono in un referendum per mantenere la legge 194 sull’aborto, con il 68 per cento di no al quesito promosso dai cattolici del Movimento per la Vita e con l’88 per cento di no a quello del partito radicale. Gli elettori furono poco meno dell’80 per cento, all’epoca non c’erano problemi a raggiungere il quorum di validità dei referendum. Era l’Italia che si apprestava ad attraversare l’ennesima crisi politica, aperta dalla pubblicazione degli elenchi della loggia massonica P2, nell’Italia governata da 36 anni dalla Democrazia cristiana e sconvolta, pochi giorni prima, dall’attentato di piazza San Pietro. Gli spari contro il papa polacco Giovanni Paolo II, diventato per i sovietici un bersaglio da colpire, da eliminare, nella seconda guerra fredda di inizio anni Ottanta.


La legge 194 era stata approvata dal Parlamento tre anni prima, nel momento più drammatico della storia repubblicana, durante i giorni del rapimento di Aldo Moro. C’era un governo di unità nazionale, un monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, i partiti si divisero, ma la legge fu approvata: dalla Camera il 14 aprile 1978 con 308 voti favorevoli e 275 contrari, dal Senato il 18 maggio, con 160 sì e 148 no.


Nelle stesse settimane passò un’altra importante legge sui diritti civili: la legge 180 in tema di accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori, che prese il nome dello psichiatra Franco Basaglia, con cui l’Italia, unico Paese al mondo, abolì i manicomi e gli ospedali psichiatrici. Il Parlamento impiegò appena 24 giorni a licenziarla, con una procedura accelerata che serviva a evitare il referendum proposto dai radicali. I presidenti di Camera e Senato accettarono che le commissioni Sanità votassero il testo preparato dal democristiano Bruno Orsini, psichiatra di professione, in via legislativa, senza cioè tornare nelle aule. Il 4 maggio la commissione della Camera trasmise il testo della legge alla commissione del Senato, il 9 fu discussa, il 10 maggio fu approvata.


Le date fanno impressione: erano trascorse soltanto ventiquattr’ore dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault rossa, al termine di una stagione in cui in tanti si erano esibiti nell’analizzare la pazzia dello statista prigioniero delle Brigate Rosse.


Sui diritti civili, in passato, i partiti hanno saputo scontrarsi e anche decidere, in mezzo a un grande dibattito pubblico che animava la società e l’opinione pubblica, con la stampa che era il luogo privilegiato della battaglia di idee. Dopo la fine della Prima Repubblica, invece, è calato il gelo sui diritti. Il bipolarismo politico, stentato e sempre indebolito dalle divisioni all’interno degli schieramenti, si è trasformato in un nefasto bipolarismo etico, quasi che non fossero rimaste che le bandiere sui diritti a sostenere l’identità politica e culturale in evaporazione sugli altri fronti. Per la sinistra, i diritti sociali, lo smantellamento del welfare, la tutela del lavoro, la lotta contro le disuguaglianze.


Oggi siamo alla vigilia di un doppio appuntamento. La Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia del 17 maggio, che in Italia coincide con la ripresa in Senato della discussione del disegno di legge firmato dal deputato Pd Alessandro Zan “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. E lo sciopero dei lavoratori nelle campagne di martedì 18 maggio, con la manifestazione a Roma indetta dalla Lega dei braccianti di cui si fa portavoce Aboubakar Soumahoro.


Tornano le piazze, nel rispetto rigoroso delle regole anti-assembramento, in un Paese in cui le forze politiche si sono agitate sull’orario del coprifuoco. Una settimana fa a Milano, e in molte città nelle prossime ore, si è mobilitata la società civile che si batte per l’immediata approvazione del ddl Zan. E poi arriveranno i braccianti, in gran parte immigrati, a nome di rider, precari, lavoratori della cultura e dello spettacolo. Molto visibile è stata la prima battaglia, lanciata anche dal palco del concerto del primo maggio. Molto meno visibile la seconda, e infatti il movimento politico che sta nascendo attorno a quelle lotte e che forse un giorno si candiderà alle elezioni ha assegnato a se stesso questo nome impegnativo: gli Invisibili.

 

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L’Espresso, in linea con la sua tradizione di oltre 65 anni di battaglie civili, dedica la copertina di questa settimana alla diversità che è ricchezza, disegnata da Fumettibrutti: «Il corpo è il primo campo di battaglia». E l’incontro, l’abbraccio con l’altro è il primo confine. Che non può essere calpestato da nessuno, meno che mai dalla politica. Oggi va ribadito questo principio elementare, nel momento in cui partiti e leader di una destra vicina ai nazionalisti di Polonia e Ungheria più che all’Europa continentale, provano a impedire l’approvazione di una legge contro le discriminazioni.


La Costituzione parla nei suoi primi articoli di una Repubblica che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2) e che si impegna a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3). Riconoscere, garantire, rimuovere sono tre bellissimi verbi. Riconoscere significa che lo Stato non concede i diritti, perché se li concede li può anche togliere, revocare. Lo Stato, con le sue leggi, riconosce (e garantisce) quello che nella società già è nato e riconosciuto da tempo: la sua evoluzione, le nuove domande, le richieste di svolgere la propria personalità, i desideri, le aspirazioni di ognuno. E gli ostacoli su questo cammino vanno rimossi, perché ogni generazione ha le sue sfide da affrontare.


Il ddl Zan, alla fine, è diventato occasione di un dibattito culturale e di questo vanno ringraziati i sostenitori, ma anche gli avversari a viso aperto della legge. Quanti hanno esposto perplessità (legittime) senza abbassarsi all’oscurantismo e all’ostruzione, fra le femministe, nella comunità omosessuale, hanno contribuito con le loro idee al confronto che è la linfa della democrazia.


Quel giorno di quarant’anni fa non si votò solo per mantenere la legge sull’aborto, conquista delle donne, ma anche per conservare l’ergastolo e le norme più dure sull’ordine pubblico negli anni di piombo. Il 77 per cento degli italiani votò contro l’abolizione dell’ergastolo. Il segno che nel doppio no dell’elettorato italiano, sull’aborto e sull’ergastolo, c’era una affermazione della libertà individuale che conviveva con una richiesta securitaria, la difesa dal crimine, molto sentito alla fine degli anni Settanta delle stragi e del terrorismo. Lo stesso elettore, lo stesso giorno, aveva votato per conservare un proprio diritto e al tempo stesso per negare a un detenuto la prospettiva di reinserimento sociale prevista dalla Costituzione. Una contraddizione che va ricucita. Per questo, oggi più che mai, diritti civili e diritti sociali sono due volti di una stessa battaglia. Di libertà e di uguaglianza. E di fraternità.