Editoriale
La triste campagna elettorale è l’ultimo capitolo di una politica vuota. Non c’ futuro senza passato. Per questo il Pd riparte dall’Ulivo. Salvini torna al nord. E Draghi rivendica la sua storia di riformista. In vista del Quirinale
di Marco Damilano
Un mese fa mi è capitato di incontrare per caso all’uscita di una parrocchia romana una signora della Repubblica, Rosa Russo Iervolino. Nel 1999 era ministra dell’Interno, poteva diventare la prima donna eletta al Quirinale, è uscita dalla scena pubblica con discrezione, ti colpisce per la profondità dello sguardo, l’intelligenza, l’eleganza. Mi ha confidato di aver riletto quella mattina alcuni scritti dei suoi genitori, Angelo Raffaele Jervolino e Maria De Unterrichter, tutti e due deputati alla Assemblea Costituente nella Dc tra il 1946 e il 1948, «perché non bisogna mai dimenticare le radici, le radici sono importanti».
La lezione mi è tornata in mente a proposito della visita a Bologna del presidente del Consiglio Mario Draghi, martedì 14 settembre. Una giornata particolare, dedicata al G20 Interfaith Forum, il G20 delle religioni, e al ricordo di Beniamino Andreatta, che fu economista, professore universitario, ministro del Tesoro e della Difesa, costruttore di classe dirigente. Occasioni che l’ex banchiere centrale diventato politico ha utilizzato per uscire dall’immagine imbalsamata e grigia che agiografi e detrattori danno di lui (i primi per erigerne un monumento in vita, i secondi per abbatterlo), e per rivendicare, in modo sottile, le proprie radici. Gli anni dell’università di Trento, con Andreatta che segnala a Federico Caffè una posizione per quel giovane, promettente allievo: «Fu il mio primo incarico di ritorno dal Mit. Un anno prima in quell’Università si era laureato Renato Curcio, potete immaginare la difficoltà di adattare i modelli intellettuali del Mit a quel tipo di studenti, ma è stata un’esperienza straordinariamente fertile». Il ritratto di Andreatta, «un riformatore paziente, lungimirante», capace di prendere «decisioni necessarie, anche se impopolari, soprattutto se impopolari», per lui «visione e pragmatismo non erano alternative ma complementari. La sua intelligenza era sempre applicata alla realtà. Nei suoi scritti e nelle sue azioni ha sempre voluto sempre guardare al futuro». E poi, al Forum delle religioni, l’impegno dei credenti nelle diverse fedi che promuovono il pluralismo, contro le discriminazioni e l’indifferenza, le barriere.
Con Draghi, in entrambe le occasioni, c’era Romano Prodi, che nello stesso giorno ha pubblicato la sua autobiografia raccolta da Marco Ascione (“Strana vita, la mia”, Solferino). «Bisognava capire come mettere insieme le energie riformiste, dai cattolici democratici, ai liberal democratici fino alle forze di impianto socialista e ambientalista», scrive Prodi a proposito della nascita dell’Ulivo nelle discussioni del 1995 con Andreatta e con Arturo Parisi. «Il nostro scopo, riunire tutti sotto un unico tetto, ci era chiaro ma, nello stesso tempo, molto difficile da centrare. Si era aperto un mondo nuovo e a noi toccava interpretarlo». Oggi l’Ulivo non c’è più, ma la democrazia italiana resta fragile, in assenza di un sistema che garantisca governi di legislatura in grado di decidere, in un quadro internazionale in cui «il dialogo sta progressivamente cedendo il posto a un ritorno delle dottrine, viste come elemento chiuso ed esclusivo», come dimostra quanto sta accadendo in Afghanistan. E il centro-sinistra italiano, il Pd di Enrico Letta, «è costretto a rifare tutto daccapo».
Andreatta, Draghi, Prodi. Le radici sono importanti. Soprattutto se si è costretti a rifare tutto daccapo. Le radici per gli integralisti e per gli ideologi sono il suolo e il sangue e il fondamentalismo religioso che in Afghanistan e in tutto il mondo tornano ad agitare la politica internazionale. Anche i sovranisti sbandierano le radici, a volte inventate, per giustificare con il passato la loro azione presente. Ma le radici per la politica sono anche il riferimento che guida l’azione, indicano una bussola di orientamento, una cultura politica. Solo chi ha smarrito la sua ragione sociale può guardarle come una concessione alla nostalgia. Chi non ha un passato non può guardare neppure al futuro.
Nella politica italiana segnata dal governo di unità nazionale, dopo sette mesi a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio tecnico, il tecnico Draghi, sente il bisogno di affermare la sua storia di riformista. Il Pd rivendica la radice ulivista, visibile nei nomi delle personalità scelte da Letta per battezzare le agorà del partito, la campagna autunnale di incontri fisici e a distanza aperti a iscritti e esterni. E la Lega di Matteo Salvini, in crisi di politica e di consensi, ripiega all’interno dei confini delle origini, il Nord dei presidenti delle regioni del Nord-Est Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, con il presidente lombardo Attilio Fontana che si adegua.
La strategia della Lega nazionale, l’allargamento della Lega al centro-sud, è fallita. Salvini è stato sconfitto un anno fa in Emilia Romagna e in Toscana, da Roma in giù c’è un altro partito che lo scavalca, il più identitario di tutti, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Nella difficoltà, la Lega torna a essere il partito di sempre, il rappresentante degli interessi del Nord produttivo, ma nel farlo spinge il suo leader a una posizione marginale, perché Salvini è un politico al tal punto a disagio con la concretezza e il pragmatismo del governo da non aver mai ricoperto un incarico amministrativo, e che quando è diventato ministro dell’Interno senza aver mai fatto neppure l’assessore ha interpretato la carica come se fosse una cattedra ideologica. Nel 2013 era stato chiamato a fare il segretario di un partito in crisi, ha agganciato il vento del ritorno dei nazionalismi liquidando la vecchia Padania e proponendo la Lega nazionale, è riuscito a tornare al governo, oggi è di nuovo al punto di partenza.
Cosa sia una politica senza radici lo dimostra la triste campagna per le elezioni amministrative verso il primo turno del 3-4 ottobre. I faccioni affissi sugli autobus sfilano per le vie di Roma senza suscitare alcuna curiosità. I capi della destra fanno campagna per sé e dimenticano il candidato sindaco Enrico Michetti, sui bus ci sono Salvini e Meloni, Michetti è scritto in piccolissimo, vicino al tubo di scappamento. Sono elezioni di transizione, di passaggio, tutto lo è in questa incredibile, scombinatissima legislatura.
La vittoria del Movimento 5 Stelle nel 2018 doveva portare a sconvolgimenti e rivoluzioni, ma l’unica riforma della legislatura è stato il taglio dei parlamentari. La politica è più trasparente e pulita, ma anche più inutile, non riconosciuta dai cittadini. Mentre avanza la crisi del Parlamento, che rispecchia le indicazioni governative, e della magistratura travolta dal caso Palamara e da altri veleni. Il giudice-simbolo di Mani Pulite Piercamillo Davigo che si affaccia in tv livido in volto per fustigare i presunti reati del procuratore capo di Milano Francesco Greco, anche lui nel pool su Tangentopoli da cui partì tutto, fa più male ai magistrati del poker d’assi di Bettino Craxi contro le toghe e delle leggi ad personam di Silvio Berlusconi. Il faccendiere Piero Amara arriva con le sue mezze bugie sulla fantomatica loggia Ungheria a dividere e indebolire la magistratura come non era riuscito a fare Licio Gelli con la P2, lo può fare perché all’interno gli anticorpi si sono abbassati e l’odio personale esplode senza freni. E i rossoneri di Mafia Capitale Massimo Carminati e Salvatore Buzzi si mettono in fila per firmare i referendum sulla giustizia di Salvini, Renzi e radicali.
In questo passaggio le radici servono a immaginare il futuro assetto per la prossima legislatura. In un anno di lavoro si deve provare a ricostruire un sistema politico sensato.
L’inquilino del Quirinale e lo schema con cui sarà eletto è il perno su cui ruota tutto. Ma poi c’è una nuova legge elettorale da approvare. E nuovi partiti da costruire, perché quelli del passato non reggono più. I partiti non bastano, e non bastano le radici, ma se non ci sono i partiti l’intero dibattito pubblico agonizza, i territori muoiono per mancanza di rappresentanza democratica, la politica diventa un mosaico impazzito con le tessere che non si incastrano perché ciascuno, dal leader nazionale all’ultimo dei sindaci, avrà il proprio interesse particolare e immediato come molla unica del suo agire.
Draghi al Quirinale è più che una suggestione, ma nel Palazzo non lo vuole nessuno e in tanti sono pronti a votargli contro nel segreto dell’urna, chi lo candida in pubblico vuole solo indebolirlo come capo del governo. Le elezioni amministrative servono a stabilire il fixing dei singoli partiti. La Meloni, per esempio, attende di poter dire il pomeriggio del 4 ottobre di essere a capo del primo partito a Roma e del secondo o del terzo a Milano e pazienza se poi i candidati sindaci del centro-destra non riusciranno a vincere il ballottaggio di due settimane dopo, un problema loro. Così come Giuseppe Conte prova a scansare da sé un eventuale collasso di voti di M5S. «O il Movimento trova una linea politica ben precisa, che tutti seguono, o implode», dice Prodi nel suo libro. «Bisognerà anche capire se il Pd e il M5S, o ciò che resta del Movimento o ne prenderà il posto, si limiteranno a una relazione interessata o lavoreranno a un programma vero. Non potrà che essere un programma con tanti compromessi, purché degni di una maggioranza riformista».
È quanto sta per accadere in Germania, dove il voto del 26 settembre distribuirà le carte per le successive trattative e accordi, ma partendo da un’identità ben fissata. Le coalizioni omnibus sono l’altra faccia dei partiti che hanno predicato il nulla della politica, il grado zero delle identità, l’andare sempre oltre fino a finire fuori gioco. Le radici non bastano, certo, ma non puoi superare ciò che sei stato se non sai chi sei e da dove vieni. È questa la lezione che viene dalla giornata particolare del capo del governo a Bologna.