Nell’incontro con al-Sisi l’attesa di giustizia dell’Italia è stata confinata in una nota a margine. Eppure era proprio Meloni, nel 2019, a invocare verità sul ricercatore ucciso dai pretoriani del regime

Dopo sei anni e mezzo di prese in giro, depistaggi e sfregi istituzionali che l’Egitto ha riservato all’Italia e alla giustizia del nostro Paese, ci aspettavamo che nel faccia a faccia fra la premier Giorgia Meloni e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, venisse fuori la piena collaborazione degli egiziani a far processare i quattro imputati per l’omicidio di Giulio Regeni. E invece nulla. Solo parole diplomatiche affidate ad un freddo comunicato. Freddo come il marmo su cui è stato adagiato il corpo martoriato di Giulio, nel 2016, esposto al faticoso riconoscimento dei familiari che hanno visto i segni di tutte le crudeltà che il nostro giovane ricercatore ha subito da parte di agenti egiziani.

 

Al-Sisi è responsabile di quello che è successo al giovane ricercatore e lo è pure per la vicenda che ha interessato lo studente Patrick Zaki.

 

Nell’esordio sulla scena mondiale a Sharm el-Sheikh, nella cornice della Cop27, Giorgia Meloni ha perso una grande occasione, perché ha pensato più agli affari italiani che non a fare rispettare gli italiani. E ad avere giustizia. Quella che lei stessa, nel gennaio del 2019, da leader di Fratelli d’Italia, urlava sui social e scriveva nei comunicati: «Giustizia per Giulio Regeni. Dopo tre anni, il popolo italiano reclama il diritto di sapere la verità e conoscere chi è responsabile del sequestro, della tortura e dell’omicidio di un nostro connazionale. Basta omertà: l’Italia pretende risposte immediate». Così parlava Meloni. Mi chiedo se davanti al dittatore egiziano quelle parole la premier adesso le abbia ripetute, perché davanti a lei c’era proprio l’uomo che è responsabile di quello che è avvenuto a Giulio. È la persona che può rispondere a quelle domande che la leader di Fratelli d’Italia si poneva nel 2019. Lo ha fatto adesso? E lui ha risposto? Sappiamo che il faccia a faccia tra la premier e al-Sisi «ha dato occasione al presidente Meloni di sollevare il tema del rispetto dei diritti umani e di sottolineare la forte attenzione dell’Italia sui casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki», come ha sottolineato una nota di Palazzo Chigi, aggiungendo che «durante l’incontro si è parlato di approvvigionamento energetico, fonti rinnovabili, crisi climatica e immigrazione».

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Il comunicato stampa diffuso dalla parte egiziana ha confermato che nel colloquio tra Meloni e al-Sisi si è discusso «della cooperazione per ottenere verità e giustizia» sul caso Regeni. Ma la presidenza del Paese delle piramidi non ha menzionato Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, a lungo detenuto in carcere in Egitto e rilasciato lo scorso dicembre, ancora sotto processo con l’accusa di aver diffuso «false notizie». La prossima udienza sul caso Zaki, peraltro, è stata fissata al 29 novembre.

 

Insomma, Meloni con il presidente egiziano si è fermata a lungo a parlare. Si sono guardati in faccia. Si sono stretti le mani. Hanno scattato foto di rito sorridenti. E di certo è emerso che i rapporti tra i due Paesi sul piano commerciale non sono mai venuti meno, compresa la collaborazione in campo energetico. E da mesi l’Egitto sta inviando segnali di distensione all’Italia. Tranne che sulla disponibilità a far processare a Roma i quattro funzionari egiziani. È opportuno quindi che la presidente del Consiglio dica chiaramente come stanno le cose sul processo Regeni e su Zaki. Ma soprattutto, spieghi agli italiani, come si comporta il governo con i Paesi non democratici.