Editoriale
Il saluto del direttore Lirio Abbate ai lettori de L’Espresso
Dal 21 dicembre non sarò più il Direttore responsabile de L’Espresso.
Ritengo che ogni editore abbia il diritto di scelta sulla direzione di una testata. Però, è altrettanto ovvia la mia sorpresa per questa decisione. Quando ho iniziato a dirigere questo giornale ho chiarito che sarei stato al servizio dei lettori e non al servizio di questo o quel politico o imprenditore. E prima di tutto che ci sarebbero sempre state le notizie, documentate e riscontrate, che hanno rilevanza pubblica, sociale e politica. Spero, guardando ai contenuti dei numeri che abbiamo fatto, di aver onorato questo tacito accordo con i lettori.
Quando il nuovo editore mi ha chiesto nei mesi scorsi di proseguire nel mio incarico, ricevuto in precedenza da Gedi, ho accettato in base a un piano editoriale che ho illustrato al nuovo azionista, e ho poi condiviso con la redazione.
Ho spiegato che L’Espresso è «un certo modo di fare giornalismo», completamente diverso dagli altri media, con un metodo nel guardare al mondo, senza bavagli né pregiudizi, aperto a tutti.
Ho delineato un giornale che non guarda solo al nostro Paese, che mette insieme carta/digitale/piattaforme social, in cui si devono leggere le notizie e far prevalere il giornalismo di qualità, affidabile, ricco di informazioni esclusive, con una visione rivolta al futuro.
Doveva essere, come questa testata è stata dal 1955, innovativa, con una proiezione editoriale digitale, un giornale partecipativo, accanto a quello di carta. La base piantata nell’identità de L’Espresso e una struttura formata da un linguaggio moderno. Pur restando sempre un giornale di Politica, Cultura, Economia e Attualità, ho progettato e lavorato a un giornale del tempo presente, e di conseguenza rivolto ai nuovi e diversi bisogni dei cittadini che lo abitano.
Ci siamo concentrati a rafforzare l’autorevolezza della testata e la qualità delle news in linea con la sua storia.
Irrobustendo il tema dei diritti civili, le battaglie sociali e culturali, la difesa dell’ambiente. Tonificando la Cultura che muove idee, le intercetta, le spiega, le offre ai lettori, interpretando tendenze, gusti e ancora una volta scenari intellettuali inediti. Ed esclusivi.
Il tutto animato dallo spirito di libertà. Un giornale «al servizio dei cittadini» che si basa su totale autonomia, legalità, difesa dei diritti, cultura, economia e sfrontata spregiudicatezza nel narrare i fatti e facendo i nomi dei protagonisti, specie quando il potere vuole tenerli nascosti, imbavagliando i giornalisti. Senza tralasciare l’impegno civile, politico, culturale e una partecipazione sincera alla crescita del Paese.
Un giornale che non è contro qualcuno o a favore di qualcun altro, ma in difesa di principi e valori d’interesse generale: il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione.
L’autorevolezza è il punto cardine e questa va preservata e rafforzata quotidianamente con il lavoro di qualità di ognuno di noi.
L’Espresso si è sempre caratterizzato per le inchieste documentate ed esclusive, che spesso disturbano i potenti, ledono interessi consolidati. È l’aspetto tipico di questo giornale con le sue rivelazioni, intese come assolvimento d’un compito civile. È il connotato della mia storia professionale che ho voluto continuare durante questa direzione.
Il giornalismo d’inchiesta è per sua natura scomodo, ma la domanda di fondo che qualcuno ogni tanto pone e a cui voglio dare subito una risposta è: ma questo giornalismo d’inchiesta è utile alla società, oppure no? Sì, lo è.
Nel nostro Paese dovrebbe esserci quotidianamente l’affermazione del diritto di sapere. E invece c’è una diffusa e purtroppo trasversale convinzione che non sapere sia meglio. Non raccontare invece aiuta i malfattori a proseguire indisturbati. «Tante inchieste de L’Espresso hanno anche contribuito a salvare la democrazia di questo Paese», è stato detto, inchieste che hanno restituito un po’ di verità agli italiani, una parte dei quali ha sempre avuto paura di conoscerla. Ed è per questo che la tentazione di rimuovere la verità nel nostro Paese è molto forte.
C’è una gran voglia di mettere a tacere i media, talvolta ci si appunta a un errore (che è in agguato e quando si verifica va evidenziato e corretto), per ammutolire un’intera filiera d’inchieste, come se quello che è stato fatto prima non avesse più alcun valore.
Questa ipocrisia italiana è insopportabile.
Il giornalismo d’inchiesta viene esaltato quando si parla del giardino del vicino, quando invece si tocca quello degli “amici” viene massacrato e gettato nella polvere.
Ho guardato alla difesa di chi è più debole, proseguendo la battaglia sui diritti, contro la corruzione e il malaffare, le contraddizioni della politica: un esempio è la copertina che ho scelto lo scorso agosto: “Mazzetta nera”.
Oltre a far sapere, a far comprendere, a far ricordare, occorre dare il diritto di parola: dialogare, interpellare, ascoltare.
E un ruolo abbiamo iniziato ad assumerlo anche sull’Unione Europea che vive anni decisivi, sfide mai conosciute prima e conflitti interni che rimettono in questione la logica stessa dell’integrazione. Allo stesso tempo ci siamo resi conto negli ultimi anni che solo l’unione e la solidarietà ci permetteranno di mantenere la nostra indipendenza e difendere i valori della democrazia e della libertà. L’unione ci consente di agire. Lo abbiamo visto durante la pandemia con la distribuzione dei vaccini, lo vediamo con il piano di rilancio Next Generation EU e lo stiamo vivendo nella crisi energetica attuale.
I singoli Paesi, anche i più grandi dell’Ue, non pesano quanto l’Unione Europea pesa quando agisce unita.
Il dibattito politico, invece, si svolge sempre a livello nazionale perché non si è mai creato uno spazio mediatico comune a tutti gli europei. Questo stavo iniziando a creare con L’Espresso.
Se si vuole rafforzare la comprensione reciproca tra le popolazioni e far crescere la coscienza dei legami politici, economici e culturali che ci uniscono, servono dibattiti sulle sfide comuni, sulle particolarità di ogni Paese e sulle immagini, spesso caricaturali, che abbiamo gli uni degli altri.
Per questo ho dato spazio a dibattiti attraverso contributi di tante voci straniere, personalità di ogni Paese, politici, economisti, letterati, giornalisti e intellettuali.
Ma sopra ogni cosa ci devono essere le notizie. Che non devono essere mercificate, che non si limitino a essere semplici note di quanto successo, come quelle che ci “suggeriscono” le società di pubbliche relazioni o dichiarazioni, spesso solo di intenti, che si fanno in occasione di eventi organizzati. Ma fatti e storie esclusive, accanto alle notizie di qualità che presuppongono un giornalismo originale, che scava per trovare la vera essenza che si cela dietro un fatto. Un giornalismo d’inchiesta che indaga sui torbidi intrecci di denaro, politica e condotte aziendali (qui spesso arriva il ricatto della pubblicità che viene ritirata). Un giornalismo di reportage internazionali da luoghi difficili da raggiungere e aree di conflitto pericolose. Storie che richiedono le competenze di professionisti. E sono orgoglioso di affermare che questa redazione lo ha fatto, perché ne ha la forma e la stoffa, il prestigio e la professionalità e ringrazio tutti per il tempo che mi hanno dedicato, e il lavoro che hanno svolto. Tutto l’Ufficio centrale, cuore di questo giornale, i super creativi dell’ufficio grafico, veri artisti anche per il progetto che verrà, e i colleghi “digitali” del sito e dei social, gli inviati, l’ufficio fotografico e tutto il comparto Idee. Ringrazio in particolare i collaboratori come Altan, Michele Serra, Bernardo Valli, Massimo Cacciari, Bruno Manfellotto, Luigi Vicinanza, Gigi Riva, Włodek Goldkorn, Barbara Alberti, Michela Murgia, Loredana Lipperini, Chiara Valerio e Mauro Biani. Come pure tutti i lavoratori de L’Espresso che non si sono mai risparmiati in nulla, anche quando era indispensabile risolvere problemi legati ad aspetti logistici e tecnologici che non era di loro competenza affrontare.
Per mesi ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo tenuto alto il nome e la storia de L’Espresso. Ma voglio ringraziare soprattutto voi lettori che mi avete seguito e sostenuto. E ringrazio le tantissime persone che in queste ore mi hanno scritto in segno di affetto e solidarietà. Vi lascio con la tranquillità professionale che traggo da questa esperienza che mi porta ad avere con voi la coscienza pulita, giornalisticamente parlando. Permettetemi dunque di concludere, salutandovi con familiarità e grande affetto sincero. Ciao.