Editoriale
I rimpatri forzati in Cina e il silenzio dell’Italia
Uffici investigativi cinesi truccati da agenzie di servizi. Agiscono nel nostro Paese per “convincere” al ritorno chi è contro il regime con procedure illegali e violazioni dei diritti umani. Viminale e Farnesina tacciono
Com’è possibile che in Italia ci siano decine di uffici investigativi cinesi camuffati da centri per i servizi che hanno lo scopo di rintracciare nel nostro Paese i dissidenti del regime e rimpatriarli?
Formalmente gli uomini di Xi Jinping distribuiti in diverse città non “rapiscono” delle persone da loro “ricercate” che vogliono riportare in Cina. Se queste avessero commesso un reato, con una regolare procedura di estradizione si potrebbe procedere al rimpatrio. Questo invece non viene fatto secondo le normali procedure giudiziarie e così i cinesi hanno purtroppo perfezionato gli errori del passato commessi dagli occidentali nella lotta al terrorismo islamico, vedi la vicenda di Abu Omar. In questo caso non si tratta di “extraordinary rendition”, ma dell’accompagnamento dall’Italia a Pechino o a Hong Kong del ricercato che è stato “convinto” con una serie di operazioni violente effettuate in patria, come minacce ai parenti e torture, a lasciare “volontariamente” il nostro Paese. Di queste persone è poi complicato conoscere che fine facciano una volta messo piede in Cina.
Tre anni fa in centinaia di migliaia sono scesi in piazza per protestare contro una proposta di legge che consentiva l’estradizione di sospetti criminali nella Cina continentale, dove i tribunali sono controllati dal Partito Comunista. Ma tutto ciò non è bastato. Adesso un’inchiesta giornalistica internazionale a cui ha partecipato L’Espresso con la Cnn e Le Monde, mette in luce quello che avviene anche nel nostro Paese.
I cinesi l’hanno chiamata operazione “caccia alla volpe”. Di tutti i fuggitivi che rientrano in Cina, come svela Gabriele Cruciata sull’Espresso di questa settimana, solamente una percentuale compresa tra l’uno e il sette per cento usa vie ufficiali. Lo affermano i dati forniti dalla Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, il più alto organismo di indagine interno al Partito Comunista Cinese che gestisce la «campagna contro la corruzione», utilizzata dal segretario Xi Jinping per le purghe sia interne al Partito sia a livello internazionale. Gli altri «fuggitivi» sono stati illegalmente «persuasi a tornare», per usare le parole delle stesse autorità cinesi.
L’inchiesta spiega che la preferenza del regime per la “persuasione” è legata alla ritrosia dei Paesi occidentali a rimpatriare i ricercati per metterli nelle mani di Paesi in cui i diritti umani di cittadini ordinari e oppositori politici sono sistematicamente calpestati, come ha affermato di recente la Corte europea per i diritti dell’uomo. Nei documenti pubblici, che pubblichiamo online a corredo dell’inchiesta giornalistica, per concretizzare il desiderio di riportare i fuggitivi in Cina, si legge che l’operazione “Caccia alla volpe” ha avuto inizio nel 2014 e fino allo scorso mese le forze di polizia cinesi hanno condotto più di undicimila operazioni riguardanti talvolta singoli individui e talvolta interi gruppi familiari. Decine di migliaia di persone fuggite nei Paesi occidentali e di cui si sono poi perse le tracce al rientro in Cina.
Visto che in Italia abbiamo scoperto stazioni di polizia cinesi camuffate, ci si chiede se e come è possibile che questo accada, e come sia stato consentito a persone vicine al regime di Xi di lavorare indisturbate e senza autorizzazioni nel nostro Paese seguendo le indicazioni ufficiali della Ccdi (Commissione centrale per l’ispezione disciplinare) applicando la «persuasione al ritorno» (ritorsioni contro i familiari rimasti in Cina), di agenti sotto copertura, di spie, di sistemi di tortura e addirittura di rapimenti come «metodo legale» per convincere i fuggitivi a tornare. Sono domande che abbiamo posto alla Farnesina e al Viminale, che però hanno preferito non rispondere.
In molti Paesi la questione finisce nelle indagini delle Unità antiterrorismo o per la sicurezza nazionale, mentre negli Stati Uniti il direttore dell’Fbi ha dichiarato dinanzi al Congresso di essere molto preoccupato per delle attività così gravi «che violano il principio di sovranità e aggirano gli standard internazionali di cooperazione tra forze di polizia». Sul tema delle stazioni di polizia d’oltremare e la repressione transnazionale, la Commissione speciale sulle interferenze straniere del Parlamento Europeo udirà l’8 dicembre la ong Safeguard defenders che si occupa di monitorare le sparizioni in Cina. Ci piacerebbe sapere come il nuovo governo di Giorgia Meloni vuole affrontare questa questione di diritti civili, ma soprattutto di incursioni di spie cinesi nel nostro Paese.