Editoriale
Sotto il nome non c'è niente: siamo di fronte al vuoto della politica
La deriva personalistica in campagna elettorale contagia tutti e nasconde l'assenza di veri progetti politici
Questa ossessione personalistica che ha pervaso – e non da ora – la politica non è spiegabile soltanto con un’ubriacatura da deriva populista che ha contagiato anche chi si ritiene astemio, né è soltanto un espediente mediatico, la cui efficacia è tutta da misurare. È invece la risultante per sottrazione dello smarrimento del senso di concretezza. Il vuoto di classe dirigente, di analisi e capacità propositiva, riduce tutto a una contesa emotiva in cui non contano i fatti, che anzi finiscono relegati su un fondale nebbioso quasi disegnato dalla matita confusa di un autore smemorato.
Conta il nome e non la cosa. E così il voto è un atto, quasi di fede, un esercizio dogmatico di remissione e non un patto, per quella che Ezio Mauro ha definito «una comunione pagana». Leader che misurano il carisma con il metro del plauso servile cavalcano l’onda. Sicuri che più si insiste sul nome, meno ci si deve impegnare sul senso delle cose. E la propaganda fa il resto, amplificando una distorsione in cui sedicenti leader sgomitano nell’agone proiettandosi come protagonisti, catapultati al centro della scena per una battuta a effetto, uno stratagemma da capocomico, una trovata triviale da avanspettacolo.
Si diceva del contagio. E non si spiegherebbe altrimenti la scelta, comune a maggioranza e opposizione, di far trainare le liste dai capi del partito che dichiarano già in premessa la rinuncia al seggio a Strasburgo. In tempo di capocrazia, per dirla con Michele Ainis, la premier guida FdI e per di più con il solo nome proprio a garanzia. Ma Elly Schlein fa altrettanto con il Pd, Antonio Tajani in FI e Carlo Calenda per Azione.
Si vanifica così lo spirito di un sistema elettorale in cui l’indicazione della preferenza affida all’elettore la scelta del proprio rappresentante. Un’elusione della norma che la dice lunga anche sul senso per le istituzioni. Ancora più grave se ci si propone di riformare la Costituzione nel mercanteggiamento, tutto interno al centrodestra, tra premierato e autonomia differenziata. E non a caso, proprio a proposito di riforme per la scelta del presidente del Consiglio, la questione di come arrivarci, ossia del sistema elettorale, non è minimamente sfiorata: non è conveniente, anzi eversiva.
La Lega che ha eletto il nome del capo a simbolo, anticipando il premierato plebiscitario rimasto l’abbaglio di una stagione di consensi depauperati in fretta, ha compiuto un’operazione che è nello stesso solco ma con una variante. Matteo Salvini si astiene dalla corsa, anche per non contarsi in prima persona, conoscendo già l’esito ma designa un alter ego. Una sorta di gemello convesso. Compare così il generale da best seller che spara in aria corbellerie alla velocità di un M16 e poi corre a scusarsi per averla detta e fatta grossa. Nella reciprocità di (im)perdibili produzioni letterarie, il Capitano e il Generale, se ne vanno in giro appaiati in una campagna elettorale che è a metà tra il tour di cantanti dal successo effimero e il circuito di wrestler bolliti.
Di qui al 9 giugno saremo sommersi di annunci. Sul lavoro e le strabilianti sorti riservateci dai fondi europei in arrivo, per esempio. La realtà che ostinatamente si fa largo ci ricorda che cresce un’occupazione ma senza qualità, i bonus sono poco più che una promessa e i diritti delle categorie precarie e deboli ulteriormente minacciati. Quanto al salvifico apporto dei soldi da Bruxelles siamo al disastro. L’apparato burocratico è inceppato, si traccheggia spostando poste di qua e di là, le truffe si moltiplicano. Ma, poi, basta un nome. Come musica (e il resto scompare).