Bruxelles sperperatrice di soldi, amministrazione gonfiata, troppe decisioni sovrannazionali: per molti l’immagine dell’Ue non è buona quando si pensa ai soldi dei contribuenti mandati alla capitale europea. Ciò che vale per ogni singolo Paese vale anche per l’Unione Europea: appena si comincia a parlare di denaro le cose si complicano. Questo è particolarmente vero per le trattative intorno al budget dell’Ue. L’attuale budget pluriannuale (2021-2027) è stato votato nel 2020. Un risultato notevole, ma per arrivarci, dovendo tener conto degli interessi e delle sensibilità dei 27 membri, è stato necessario uno dei vertici più lunghi della storia dell’Ue. Questa lentezza esasperante risulta dalla volontà di tutti gli Stati di difendere i propri interessi nazionali specifici.
Fin dall’inizio il progetto di integrazione europea disponeva di un budget comune. Ai fondatori sembrava evidente che per fare politica insieme ci volevano mezzi all’altezza delle ambizioni. Durante i primi decenni dopo il trattato di Roma del 1957 veniva finanziata principalmente la politica agricola comune, un progetto chiave soprattutto per la Francia. Nella misura in cui altre competenze venivano trasferite a livello europeo e nuovi membri raggiungevano l’unione, aumentavano anche i mezzi a disposizione delle istituzioni comuni.
L’attuale budget dell’Ue è di 1.074,3 miliardi di euro, che sono a disposizione per un periodo di sei anni. In aggiunta a questo budget “regolare” i governi degli Stati membri dell’Ue hanno votato l’eccezionale strumento di rilancio Next Generation Eu (Ngeu) che, con un volume di 750 miliardi, si prefigge di far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia.
A prima vista sono cifre impressionanti, è vero. Ma, pensandoci bene, sono piuttosto modeste se si mettono in confronto con le spese degli Stati membri a livello nazionale. Il budget regolare dell’Ue rappresenta solo l’1% dell’insieme del Pil degli Stati membri, mentre le spese pubbliche dei governi nazionali arrivano al 50% del Pil, talvolta anche di più.
Inoltre le istituzioni europee sono relativamente parsimoniose: solo il 7% del budget viene utilizzato per l’apparato istituzionale comunitario. La maggior parte dei mezzi torna agli Stati stessi attraverso vari strumenti di sostegno e programmi di sviluppo, permettendo a molti cittadini europei di approfittarne. Il programma più conosciuto è l’Erasmus che permette ai giovani di stare in un altro paese durante gli studi o l’apprendistato. Chi viaggi attraverso l‘Europa scoprirà anche che parchi naturali, monumenti restaurati o altri impianti turistici sono stati sovvenzionati da programmi europei. I fondi europei contribuiscono anche a grandi opere di infrastruttura, progetti di ricerca o allo sviluppo di imprese start-up. Il budget comune dell’Ue ha un doppio obiettivo: garantire una perequazione tra gli Stati e aumentare la competitività dell’insieme dell’Unione.
Mentre i governi nazionali dispongono di tasse e altri strumenti per garantire le risorse, l’Ue ha scarsissime risorse proprie. Si finanzia invece attraverso i contributi degli Stati, calcolati principalmente in base alla potenza economica di ogni Paese. Ne segue che alcuni pagano più di quello che ricevono direttamente indietro dalla Commissione: il che provoca a volte delle insoddisfazioni in alcuni Paesi, anche in Italia. Rispetto alla popolazione i più grandi “contributori netti“ sono Danimarca, Germania, Svezia, Olanda e Austria. Anche Francia e Italia sono tra i “contributori netti”, come tutti i Paesi fondatori.
Bisogna tenere presente però, e questo si dimentica spesso quando viene stigmatizzato il costo dell’Europa, che una buona parte dei fondi non viene distribuita direttamente ai singoli Paesi, ma vi arriva indirettamente tramite programmi di sostegno, aperti a tutti attraverso appalti (come nella ricerca ad esempio). La quantità di denaro che arriva da Bruxelles dipende dunque anche dalla capacità delle amministrazioni, delle imprese, delle università, della società civile di presentare progetti competitivi.
Tutto un altro discorso vale per l’Italia quando si guarda al fondo di rilancio Next Generation Eu. Insieme alla Spagna l’Italia appartiene, con 69 miliardi di sovvenzioni e 123 miliardi di crediti a tasso facilitato garantiti dall’Ue, ai maggiori fruitori del fondo. Rispetto ad altri programmi esistenti, i margini di manovra per definire la priorità nazionale negli scambi con la commissione sono nettamente più grandi e lasciano spazio a scelte politiche. Grazie ai fondi europei si è potuto avviare il Piano di rilancio, il più grande programma di investimenti nel futuro del paese nella storia recente dell’Italia. Dimenticarlo significa nascondere quanta solidarietà è possibile tra europei.
Un altro esempio di come, proprio nei periodi di crisi, i mezzi comuni dimostrano la loro forza è il programma Sure che ha messo a disposizione, durante la pandemia, crediti a basso interesse per miliardi di euro per permettere di mantenere in attività (ridotta) molti impiegati. 30 milioni di persone hanno potuto evitare la disoccupazione grazie a questo strumento.
Chiedersi il perché dei contributi all’Ue è legittimo, soprattutto se il proprio Paese contribuisce più di quello che riceve. Ma il calcolo da fare è più complesso. Indipendentemente dal contributo, sia esso più alto o più basso delle sovvenzioni ricevute, ogni Paese membro dell’Ue gode dei vantaggi che risultano dal mercato interno comune e in modo più generale del peso che l’Ue ha rispetto ad altri attori mondiali. Sono proprio le più grandi potenze economiche dell’Ue, Germania, Francia e Italia, che approfittano, grazie alla loro competitività, del mercato comune e della posizione dell’Ue sulla scena internazionale.
Questo vale anche per la valuta comune, l’euro, che ha dato una stabilità all’insieme della zona che le singole valute nazionali non avrebbero potuto garantire. La polemica italiana intorno agli svantaggi per l’industria domestica dall’introduzione dell’euro è comprensibile, perché infatti toglieva alle imprese italiane là possibilità di mantenere la competitività grazie alla svalutazione della lira. Ricordiamo invece che l’Italia voleva far parte del club a tutti i costi. La lira da sola sarebbe difficilmente sopravvissuta alla pressione dei mercati nella crisi finanziaria e bancaria. In un sistema stabile l’Italia e la sua industria hanno tutto per essere competitive. Vista in questo modo, l’Ue è un ottimo affare.
Eileen Keller è specializzata in economia e finanze dell’Ue. È stata professoressa all’Istituto Europeo di Fiesole ed alla James Madison University. Il suo ultimo libro sulla crisi bancaria è stato pubblicato dalla Oxford University Press.
Traduzione di Amélie Baasner