Ex carcerato, oggi scrittore e attore, Salvatore Striano racconta nel libro 'La tempesta di Sasà' la sua vita in carcere e l'incontro salvifico con il teatro: "L'arte è apartitica e apolitica, non ti dà affiliazione ma è la massima espressione della libertà"

“Se nei vicoli di scuola avessi incontrato Amleto e Macbeth, non sarei arrivato in carcere”. Ne è convinto, tanto da farne il perno dei suoi ultimi dieci anni di vita, Salvatore Striano, ex detenuto, oggi scrittore e attore. Condannato a quattordici anni per associazione a delinquere, estorsione e spaccio di droga, in carcere incontra, attraverso il regista Fabio Cavalli, il teatro: De Filippo, ma soprattutto William Shakespeare, che gli insegna a non praticare la vendetta, “perché ti riempie di niente e anzi ti svuota ancora di più, perché ti toglie pure la vittima su cui ti stai sfogando solo per non odiare troppo te stesso”. È l’inizio di una conversione radicale, che porta “Sasà” a diventare, una volta uscito dal carcere, attore di teatro e di cinema (è stato scelto da Matteo Garrone per Gomorra, dai fratelli Taviani per Cesare deve morire, da Ascanio Celestini per Viva la Sposa). Ma soprattutto testimone - nelle scuole dove spesso si reca e nelle carceri – di qualcosa che si è assurdamente dimenticato, tanto svilite sono le discipline umanistiche. E cioè che l’arte e la letteratura non sono hobby, ma strumenti che letteralmente ti salvano la vita: proprio come recita il sottotitolo del nuovo (e secondo) poetico libro edito per Chiare Lettere: La Tempesta: il romanzo di una vita salvata da Shakespeare e dall’amore per i libri.

Il libro comincia mentre entri nel carcere Valdermoro di Madrid, dove sei arrivato l’ 11 gennaio 2000 dopo tre anni di latitanza. Ma cosa è accaduto prima, quando tu eri, come ti definisci, “l’alieno, la pecora nera, a chiazze, brutta e spelacchiata, della mia famiglia”?
Ho iniziato presto a fare malavita da bambino, spacciavo le sigarette di contrabbando, fino a che non ho compiuto il mio primo furto a nove anni, con dei grandi che mi chiesero di partecipare a una rapina in un negozio di giocattoli; da lì è iniziata la mia carriera criminale, anche se io sono figlio di una coppia di persona normali, mio padre lavoratore, mia madre casalinga. A quattordici anni inizio a fare uso di hashish e cocaina, a rubare, scippare i turisti, e vengo minacciato dai camorristi di turno che mi vogliono far consegnare la refurtiva. Per contrastarli, ed evitare di obbedirgli, creiamo questo maledetto-benedetto gruppo delle Teste Matte, contro le prepotenze dei camorristi, ingaggiamo delle guerre - dall’ ‘87 al ‘92 - nei quartieri spagnoli di Napoli, che producono centinaia di arresti e decine di condanne all’ergastolo; io stesso vengo condannato a quattordici anni per associazione camorristica, estorsione, spaccio di droga, finché non scappo in Spagna come latitante, ma vengo preso dopo tre anni e portato al carcere di Madrid.

Carcere in cui spacci telefonini per avere un po’ di fumo e cibo più umano. Lo racconti come un luogo ambivalente.
Il carcere di Madrid è pesce a due teste: da un lato è vicino alla famiglia, è molto umano perché ti permette di fare l’amore con la persona che ami una volta a settimana, ti permette di poter chiamare dieci minuti al giorno, insomma ti fa stare vicino agli affetti, non ti fa impazzire, non ti imbastardisce; però è al tempo stesso è una giungla, perché tu stai dalla mattina alla sera con i detenuti, sempre aperti, abbandonati al proprio destino, senza guardie: c’è lo scontro tra bande, ci sono gruppi di arabi, gruppi di sudamericani; noi italiani dovevamo stare sempre attenti, uniti, insomma era un luogo più pericoloso della carceri italiane.
La copertina di 'La tempesta di Sasà'


Poi è il turno di Rebibbia. Tu parli di un carcere pieno di camorristi, dove ti conoscevano tutti, molti ti rispettavano, altri no. Che esperienza è stata?
Teste matte è un nome scomodo, soprattutto in un luogo chiuso in cui ci sono camorristi, dove ci sono bande, dove ci sono guardie. Inizio a farmi la seconda galera, quella italiana, che è più difficile, claustrofobica, inutile se vogliamo. Non fai altro che conoscere le storie assurde di cui ciascuno è protagonista, cerchi di studiare la materia penale, per capire cosa hai fatto, cosa hanno fatto gli altri, e diventi un giudice, un avvocato, esperto di crimini, ti imbastardisci, poi esci e ti sei acculturato solo criminalmente così metti in atto cose ancora diverse da quelle che avevi fatto; io no, invece, fortunatamente ho incontrato la letteratura, il teatro, ho ribaltato tutto, ho capito che quella era la mia strada e che il mio destino non era segnato, che lo potevo disegnare io, che sulle tavole del palcoscenico potevo farmi perdonare, che le persone mi applaudivano invece di scappare, mi sorridevano invece di farmi facce brutte, che nessuno mi minacciava, che si può vivere di altro. Ho capito che nessuno esce indenne dalle tragedie, quindi meglio non crearle; ho scoperto il sacrificio, ma soprattutto i tempi, quando è giusto agire, quando è giusto non agire.


A Rebibbia hai incontrato Carminati.
Persone come Carminati non hanno ragione di esistere, non appartengono a noi, anche se tentano di usarci e qualcuno si fa usare. Loro sono diversi, sono delle persone di una cattiveria premeditata, enciclopedici del crimine: non è il ragazzo che si perde, nel loro caso c’è la creazione di un disegno criminale; abbiamo preso le distanze da lui e dall’azione violenta, per questo si è poi specializzato negli appalti, con le carceri, gli ex detenuti, con le case famiglia, pure con la cultura prendeva i soldi. Questo mentre noi, nel frattempo, eravamo persone messe in crisi dalla letteratura e dai personaggi del teatro, riflettevamo sulla libertà, eravamo persone oneste che rischiavano di stare in mano a una persona che stava preparando cose cattive, una strada criminale per mangiarsi Roma. I detenuti politici sono quelli che mettono le bombe nelle piazze, non hanno un nemico preciso, fanno saltare le persone come l’Isis, non appartengono al mondo del carcere, delinquenziale, al bandito, al rapinatore, al ladro; mentre io ho capito dopo cos’erano l’etica e la legalità, loro sono quelli che hanno studiato, potevano fare qualcosa di diverso e non l’hanno fatta, l’hanno ignorata, perciò non dovrebbero avere nessuna attenuante: eppure capita che a un ragazzo di strada diano il massimo della pena e a loro tutte le attenuanti.


E poi è arrivato Shakespeare.
Mi ha aperto la mente, mi ha fatto conoscere la tragedia; tu pensi che la tragedia sia solo tua, che la tua tragedia sia il mondo, invece Shakespeare me ne ha presentate tantissime, in tante forme e sotto tanti linguaggi; mi ha mi ha fatto capire che dalla tragedia non se ne esce, mi ha insegnato che tutto il male che fai si ripercuote contro di te, meno ne fai meno ne ricevi, che se hai strumenti per fare del bene perché fare del male? Prendi ad esempio Amleto: a Napoli ci sono tanti ragazzi con papà uccisi che non sanno se devono vendicare o no, e io vado a dirgli che quella non è una soluzione. Attraverso Giulietta e Romeo, invece, vedo la realtà dei ragazzi che vanno dalla famiglia a dire: “Mi sono fidanzato con il figlio di quello” e gli viene detto: “Ma sei pazzo, quelli sono i nostri rivali”. Ma Shakespeare mette anche in scena personaggi che raccontano come per arrivare alla pace non occorra passare per la guerra. Nella Tempesta c’è la confessione dei nostri errori come premessa per poi ripartire, chi meglio di un carcerato può utilizzare queste parole, abbassando la testa di fronte alle proprie colpe? Insomma Shakespeare non lascia i suoi personaggi, li interroga sempre, con lui devi tirare le somme e fare i conti con il bene e con il male. Un’altra cosa che ho imparato è che le parole sono azioni, Shakespeare me le ha insegnate e io le osservo come fossero delle leggi religiose, anche se in lui non c’è l’inferno, lui è misericordioso, sa tutto, puoi attingere a tutto. Io lo consiglio a tutti i ragazzi delle carceri e delle scuole, ma anche a tutte quelle persone che non sanno interpretare l’amore, la vita.

Tu dici che i libri in generale ti hanno salvato l’esistenza.
Sì, perché nei libri il buono lo trovi subito, invece nella società, mentre le porte del crimine sono tutte aperte, i diritti costituzionali - una casa, un lavoro - non te li dà nessuno, e se vuoi un piatto di pasta devi andare alla Caritas, un nome che dovrebbe far riflettere.

Come stato il “dopo” del carcere?
Noi artisti siamo un po’ poveri, perché la cultura non è valorizzata, sappiamo recitare, sappiamo cantare, ballare ma noi importiamo materie prime, però nonostante questo siamo dotati di una bellissima umanità, siamo più votati al buono, all’accettazione, all’eguaglianza. Io sono stato protetto dal mondo culturale, anche se nei fatti l’associazionismo, gli educatori, i servizi sociali, le associazioni antimafie li reputo soprattutto un grandissimo business. Oggi comunque ho la voce abbastanza forte per non essere senza voce e quindi dire che le carceri devono essere simili a scuole e le scuole mai carceri, ma luoghi di opportunità e di crescita, e non solo di obblighi.
Io vengo da un vissuto maledetto, lo voglio raccontare ai giovani, spiegare i miei errori, per stimolarli a prendere le cose migliori che io sto prendendo, a ricordare loro che sono pieni di opportunità. Ancora oggi ho lacune grandi a scrivere, a leggere, ma sono le azioni che contano e i giovani mi seguono, e ogni ragazzo che salvo dalla strada per me è fonte di felicità, a me cui hanno sempre chiesto che cosa hai fatto, mai perché l’ho fatto; c’è giustizia solo nella letteratura, c’è giustizia nell’arte, nella comunicazione. Shakespeare ci insegna anche la responsabilità, a migliorare il luogo dove lavoriamo invece di raggiungere la sufficienza per non farci cacciare, così come per l’attore non importa che sia protagonista della scena, ma deve esserci, ogni battuta è fondamentale, bisogna devi farla con tutta la professionalità, l’applicazione di questo mondo. Il teatro ti impone i tempi delle battute, delle azione, nel mondo criminale non ci sono i tempi, è una giungla, cane mangia cane.


Cosa ti hanno detto persone che ti conoscevano prima e dopo?
Attraverso il teatro il nemico perde lo sfizio di attaccarti: ti vedo buono all’improvviso, è straordinario che un criminale diventi un pagliaccio da palcoscenico, che si metta in discussione, dia nuovo corso alla sua vita. Tanti ne incontro che mi dicono stupiti “mi fa piacere per te”. L’arte è apartitica e apolitica, non ti dà affiliazione ma è la massima espressione della libertà, poi devi accettare il compagno nero, quello gay, quello basso, l’arte tocca tutto e ti fa misurare con la materia umana. Ma il punto è che sai che puoi uccidere e non uccidi, che puoi ferire e non ferisci: la salvezza non te la danno la terapia di gruppo o gli psicofarmaci, per favore l’arte usiamo l’arte, i libri, soprattutto abbiamo maestri che li prendono e ce li mettono in mano.


Come giudichi la situazione di oggi?
Abbiamo una popolazione distratta, frammentata, leader politici che abbiamo tanto voluto giovani ma poi litigano tra di loro con costi enormi, mentre i sindaci ormai sono soli. Siamo il paese dove ognuno fa quello che vuole. Salvini fa la sua lotta per l’immigrazione, Renzi si è sposato con le banche e con i poteri forti quindi il paese non migliora per niente. I Cinque stelle? Non hanno identità, sono brave persone che non vogliono bene a nessuno, soprattutto non hanno un’anima sociale. E se non hai un’anima sociale, non puoi essere un partito.

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