Prigionieri, torturati, rimpatriati a forza. Sono profughi siriani o afgani, tenuti nei campi turchi. Vittime di un sistema repressivo spietato. Finanziato con i fondi della Ue

Siamo a Nord di Kabul, estate 2023. Decine di uomini si accostano silenziosi a una bara aperta. È l’ultimo, discreto saluto a Jamshid (nome di fantasia), ex comandante delle forze speciali afgane, da circa un mese tornato dalla Turchia. «Era andato a nuotare in un canale vicino casa, quando i Talebani lo hanno seguito e gli hanno sparato», racconta il fratello. Dopo la caduta di Kabul nell’agosto 2021, Jamshid aveva lasciato moglie e figlia per rifugiarsi in Iran. Al terzo tentativo era riuscito a entrare in Turchia. Quando chiede asilo alle autorità turche, mostra le foto in divisa e i documenti da ufficiale. «Non si sono nemmeno presi la briga di ascoltare il suo problema», racconta però un altro familiare. Qualche mese dopo, viene arrestato e deportato prima in Iran, poi in Afghanistan.

In Turchia, Jamshid è rimasto intrappolato in un sistema di detenzione ed espulsione tra i più grandi al mondo, creato e sostenuto dai fondi europei. L’inchiesta de L’Espresso, in collaborazione con Lighthouse Reports e otto testate, traccia almeno 213 milioni di euro spesi dall’Ue dal 2007 per la costruzione e la gestione di 35 centri di espulsione in Turchia, 32 dei quali sono attualmente operativi e hanno una capacità complessiva di quasi 19 mila. Un portavoce della Commissione ha dichiarato che, a oggi, il valore complessivo dei contratti ammonta a 199,7 milioni di euro.

Tra il 2014 e il 2020, l’Ue ha stanziato 915 milioni di euro per la gestione della migrazione e delle frontiere in Turchia, fondi usati per rimpatriare centinaia di migliaia di afgani e siriani, verso Paesi che la stessa Ue considera insicuri.

Nel 2015, l’Ue accoglie la richiesta della Turchia di convertire sei centri di accoglienza, finanziati tramite lo Strumento di assistenza per la preadesione, in centri di espulsione. Erano gli anni in cui l’esodo di oltre un milione di rifugiati verso l’Europa aveva gettato il blocco in una crisi politica, trasformando la Turchia da potenziale candidata Ue al suo più grande esperimento di esternalizzazione delle frontiere. Dopo il patto Ue-Turchia del 2016, con cui Ankara si impegnava a contenere i migranti in cambio di finanziamenti, l’Ue ha stanziato 11,5 miliardi di euro con l’obiettivo dichiarato di fare fronte alla crisi umanitaria.

Centinaia di pagine di documenti ottenuti tramite richieste di accesso agli atti rivelano come, negli anni successivi, l’Ue abbia finanziato la creazione di condizioni simili a quelle carcerarie nei centri di espulsione, pagando, per esempio, 1,4 milioni di euro per «aumentare l’altezza dei muri esterni» di sette centri. Il rapporto finale del progetto vanta che «il tasso di fuga è diminuito profondamente».

«Come deputata, posso entrare senza difficoltà nelle prigioni turche», Sevda Karaca, parlamentare del Partito del Lavoro (Emep), dice a L’Espresso. «Ma non sono mai riuscita ad accedere a un centro di espulsione. Sono scatole nere».

Milioni di euro sono stati destinati all’aggiunta di filo spinato, alla creazione e all’aggiornamento di sistemi di sorveglianza, all’impiego di guardie di sicurezza e per veicoli per il trasporto dei migranti – uno dei quali, con il logo dell’Ue, è stato avvistato durante l’inchiesta presso un valico di frontiera. Oltre a finanziare la costruzione e ristrutturazione di almeno 19 centri, l’Ue ha coperto anche attrezzature, manutenzione e stipendi del personale.

Decine di ex detenuti e personale hanno evidenziato sovraffollamento, scarse condizioni igieniche e mancanza di accesso alle cure mediche nei centri finanziati dall’Ue. In uno dei centri di Istanbul, Tuzla, un detenuto azero ha raccontato di avere dormito all’aperto in un campo sportivo durante l’inverno, condividendo una coperta con tre persone. Filmati verificati, emersi nonostante la prassi di confisca dei telefoni, mostrano i detenuti che dormono sull’asfalto e circondati da rifiuti, nello stesso spazio.

Il numero di deportazioni ufficiali dalla Turchia è passato da circa 47 mila nel 2021 a 130 mila nel 2023. La Turchia dichiara di rimpatriare solo afgani irregolari che possono rientrare in sicurezza, mentre sostiene che tutti i rimpatri verso la Siria siano volontari. Le testimonianze, assieme a sentenze dei tribunali turchi e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo indicano che si tratta in realtà deportazioni forzate.

Secondo un ex funzionario della Commissione europea, che ha richiesto l’anonimato, i dettagli su queste problematiche venivano «sistematicamente cancellati» dai rapporti annuali sulla Turchia. «Tutti sanno, ma fanno finta di niente», racconta. Sette diplomatici europei in Turchia hanno confermato preoccupazioni simili. In una dichiarazione, la Commissione ha affermato che i rapporti forniscono una «valutazione rigorosa» e che i fondi hanno contribuito a «migliorare le condizioni materiali nei centri». In caso di violazioni, l’Ue avrebbe il diritto di sospendere i pagamenti o recuperare i fondi. La Commissione ha rifiutato di divulgare i propri rapporti di monitoraggio, richiesti tramite accesso agli atti, dichiarando che i documenti contengono «osservazioni critiche» che «potrebbero compromettere le relazioni bilaterali» con la Turchia.

Per Maryam (il nome è stato cambiato), 26 anni, la città di Kayseri in Anatolia centrale è una prigione a cielo aperto. Il suo status di rifugiata le impedisce di viaggiare da una provincia all’altra della Turchia senza autorizzazione, costringendo l’ex cantante afgana a declinare diversi inviti a esibirsi a Istanbul da quando è arrivata nel 2019, in fuga dall’avanzata dei Talebani. Finché all’inizio di quest’anno suo marito e il figlio di quattro anni, nato in Turchia, spariscono. «Ho contattato chiunque», racconta Maryam. «Dopo 20 giorni, mio marito mi ha chiamata dall’Afghanistan, dicendomi che era stato deportato».

Nel 2022, le restrizioni sulla libertà di movimento e residenza per i richiedenti asilo aumentano, mentre di fatto viene sospeso il programma di protezione temporanea per i siriani. «Ci sono pratiche arbitrarie nei controlli di polizia, che sono diventate una fonte di pressione costante», spiega Emma Sinclair-Webb di Human Rights Watch.

In un contesto di crescente disoccupazione, inflazione e crisi valutaria, durante le Presidenziali del 2023 i partiti di opposizione hanno attaccato le politiche migratorie del presidente Recep Tayyip Erdoğan, flirtando con la destra ultranazionalista. Dopo aver accolto milioni di siriani come «fratelli», Erdoğan ha così promesso di rimpatriarne un milione. È in seguito alla sua riconferma alla guida del Paese che nascono le «unità mobili per la migrazione», stazioni di polizia itineranti che pattugliano le città alla ricerca di migranti irregolari. «Appena questi veicoli compaiono, nessuno osa uscire di casa», si è vantato il ministro dell’Interno in un’intervista tv.

Secondo i documenti ottenuti, l’Ue ha aiutato la Turchia a istituire e poi ampliare il sistema di registrazione delle impronte digitali usato a bordo delle unità mobili.

Ibrahim, uno studente siriano di medicina, viene fermato ad agosto da una delle pattuglie a Gaziantep, una città nel Sud-Est della Turchia che ha accolto 500 mila siriani su una popolazione di due milioni – e nell’estate 2024 sede di veri e propri raid contro la comunità siriana. Portato al campo informale di Elbeily dopo essere stato fermato fuori dalla sua provincia di residenza, per due giorni viene sottoposto a pressioni per firmare un modulo di rimpatrio volontario. «Mi colpivano in faccia», dice. «Il secondo giorno mi hanno isolato senza acqua. Hanno detto al custode che, se avevo sete, doveva chiedermi se volevo andare in Siria».

Sui 37 detenuti intervistati 25 hanno riferito di essere stati costretti o pressati a firmare moduli per il rimpatrio volontario dalle autorità turche. «L’ufficiale è venuto a chiedermi di firmare un documento. Mi hanno detto che serviva per registrarmi», racconta Abdul Eyse, 28 anni. «C’era una versione in arabo, ma mi hanno lasciato leggere solo quella in turco. Mi sono rifiutato». Alla fine, costretto a firmare, ora si trova a Idlib, provincia siriana convertita in un campo di quattro milioni di sfollati nel Nord-Ovest della Siria, una zona controllata da Hayat Tahrir al-Sham (Hts), un tempo il principale affiliato di Al Qaeda in Siria, e schiacciata tra gli attacchi del regime e il muro eretto dalla Turchia.

Quando arriva in Turchia nel 2019 per ricevere cure mediche dopo un bombardamento russo, Abdul ottiene protezione temporanea e trova lavoro come bracciante. Sua moglie lo raggiunge, ma non riesce a regolarizzare la sua posizione, così anche il loro figlio nasce non registrato. Nel 2022, lei e il piccolo vengono fermati dalla polizia e portati in stazione per mancanza di documenti. Dopo una lite con gli ufficiali, Abdul viene arrestato e portato in un centro di espulsione, poi trasferito in tre centri diversi, una pratica comune che contribuisce a ostacolare l’accesso all’assistenza legale. «Un collega ha cercato il suo assistito per quasi un mese in tutta la Turchia. Non è riuscito a raggiungerlo prima che fosse deportato», spiega l’avvocato Yasin Divrak, vicepresidente della ong Mazlumder. Secondo i documenti ottenuti, nel 2022 solo il 21% dei detenuti ha avuto accesso a un avvocato.

Quasi tutti gli avvocati e 30 dei 37 detenuti intervistati hanno segnalato casi di violenza o torture all’interno dei centri. «Ogni tre giorni, i poliziotti venivano e picchiavano i prigionieri», racconta Abdul riferendosi al centro di Kayseri – costruito con i fondi europei. Racconta di essere stato rinchiuso in una cella-frigorifero a intervalli di 15 minuti e di avere passato «ore in questo frigo». In una replica, il governo turco ha negato l’esistenza di tali stanze, la cui presenza è anche citata in altre testimonianze. Afferma che i centri di espulsione sono gestiti secondo il principio della «tolleranza zero verso i maltrattamenti» e che «i casi segnalati…vengono attentamente esaminati».

Uno di questi riguarda un video di sorveglianza del 2021 trapelato dal centro di Izmir, che mostra le guardie spingere alcuni detenuti in una stanza, fuori dalla portata delle telecamere. Uno di loro emerge correndo dalla stanza, senza pantaloni e con una gamba insanguinata, e più tardi le guardie cercano di disattivare la telecamera. «Ricevemmo i nomi di quattro vittime», racconta l’avvocato Duygu Inegollu il quale, al suo arrivo, riscontra che «avevano lividi e lesioni». Archiviato dal pubblico ministero, il caso è in fase di giudizio alla Corte costituzionale.

Le testimonianze raccolte indicano che, dallo scorso ottobre, si sono verificati almeno quattro casi di morti sospette in detenzione amministrativa. Nonostante il governo turco abbia confermato tali decessi, afferma che siano attribuibili a cause naturali.

Secondo il governo, tra il 2016 e settembre 2024, 715.665 siriani sono tornati «volontariamente, in sicurezza e con dignità». Tuttavia, funzionari siriani al confine di Bab al-Hawa riportano che circa la metà dei rimpatri registrati nel 2023-24 sia stata forzata e che la Turchia abbia esortato a non divulgare i dati. «Non volevano che usassimo la parola “deportati”», conferma il funzionario di un altro valico.

Un portavoce del ministero dell’Interno ha dichiarato che, oltre al monitoraggio da parte di organizzazioni internazionali (ruolo ricoperto dall’Unhcr), ong ed enti locali, recentemente «i centri hanno iniziato a ricevere dichiarazioni scritte e registrazioni video». I dati dell’Ue mostrano che l’Unhcr ha monitorato meno del 25% dei rimpatri tra il 2016 e il 2022.

Maryam, la musicista afgana, ha cercato di contattare le autorità per far rientrare la sua famiglia in Turchia. «Mi hanno informata che deportano centinaia di persone ogni giorno e che non ha senso consentire il ritorno di qualcuno», racconta. «Anch’io potrei essere deportata domani». Questo perpetuo stato di insicurezza sta spingendo molti rifugiati a cercare opzioni, più costose quanto meno pericolose, per raggiungere l’Europa.

A Idlib, il figlio di Abdul non ha accesso a cure mediche adeguate per la malattia cardiaca di cui soffre. In un contesto di instabilità regionale, la situazione potrebbe ulteriormente complicarsi in questa regione controllata dall’opposizione e ancora regolarmente bombardata dalle forze del regime e dai loro alleati. L’ultima immagine che Abdul conserva della Turchia, il Paese che secondo l’Europa avrebbe dovuto offrirgli un rifugio sicuro, è quella della bandiera dell’Ue accanto a quella turca sul bus con cui è stato deportato.