Opinioni
18 agosto, 2025Figuraccia internazionale, unita a un pasticcio giudiziario. L’ennesima sul fronte migranti
L’indomita baldanza sul caso Almasri, con la quale la premier ha esposto il proprio petto alla magistratura “nemica”, ha un triplice scopo. Serve a difendere sé stessa da una sostanziale delegittimazione. Interviene a proteggere un esecutivo che appare sempre più imbelle che azzoppato. E costituisce una misera opportunità per rilanciare, ancora una volta, la propaganda referendaria sulla giustizia che ci accompagnerà nelle settimane a venire, più di quanto non sia accaduto.
La liberazione e il ritorno in patria del generale libico, arrestato su mandato di cattura internazionale e dei suoi tre amici, rimpatriati su volo di Stato, ha portato alla richiesta di autorizzazione a procedere del tribunale dei ministri per Carlo Nordio (Giustizia, rifiuto d’atti d’ufficio e favoreggiamento) e per Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano (rispettivamente Interno e sottosegretario alla Sicurezza, favoreggiamento e peculato).
Ha lasciato fuori la presidente, esponendola però alla più urticante delle conseguenze: l’idea che tutto sia accaduto a sua insaputa. Di qui la necessità della presidente di intestarsi la responsabilità di tutto e rivendicare di essere lei il capo che decide, spende, come ha fatto inutilmente in Albania, dispone e, se il caso omette, per ragioni, si intende, di superiori interessi.
È evidente che dal punto di vista giudiziario la faccenda è destinata a infrangersi contro il muro del voto della Camera che blinda i ministri. Restano le macerie dell’ennesima figuraccia internazionale in concorso che consegna al mondo l’immagine di un Paese sostanzialmente inaffidabile, perfino su questioni cruciali come i diritti umani, nonostante trattati e norme vincolanti.
Incapace a tutto. Attendista, quando non arruffone e approssimativo. Che lascia nelle mani di una zarina ministeriale, la capa di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, il pallino dell’inazione, unica soluzione all’italiana per cavarsi d’impiccio, trincerandosi dietro commi e cavilli. Nella sostanza, perché di questo parliamo quando parliamo di politica, la vicenda Almasri è e rimane la genuflessione «della Nazione» a una banda di criminali alla quale si riconsegna il proprio capo, torturatore e stupratore di bambini, nella previsione che, altrimenti, gli italiani al lavoro in Libia avrebbero potuto patire ritorsioni.
La banda in questione, ovvero la milizia Rada, gestisce direttamente il traffico di migranti e la loro detenzione sull’altra sponda del Mediterraneo. Usa i flussi come strumento di pressione e le prigioni lager come soluzione ai pretesi allarmi italiani sulle coste invase. Non disturba, anzi protegge anche, gli interessi nostrani in Africa. Dunque, l’esternalizzazione delle frontiere, iniziata con il protocollo firmato da Marco Minniti ed elevata a sistema da Meloni, consegna nelle mani di mascalzoni un’arma da utilizzare contro la sicurezza dei nostri connazionali, nel perimetro di indicibili negoziati, condotti peraltro da una posizione di sudditanza. Insomma, si tratta, e non da posizioni di forza, con i registi di quello stesso traffico di uomini che a parole si dice di voler contrastare. Così si è accompagnato in Libia il capo di un gruppo tra i più feroci che L’Aia ci aveva messo nelle mani. E lo si è fatto mentre si agita il pugno di ferro contro quelli che sbrigativamente chiamano scafisti e con i quali imbottiamo le galere nostrane.
Implacabili con i deboli, scodinzolanti con i ras.
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