Politica
18 agosto, 2025Lavori partiti: era il 2009. Poi il nulla fino a quando Salvini che era contrario ha detto che si va. Restano alcuni nodi: la spesa, ora pubblica, le norme europee e il rebus pedaggi
Sono partiti oggi i lavori del primo cantiere per la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina. L’amministratore delegato Pietro Ciucci ha ricordato che è stato un anno decisivo per la ripartenza del ponte, in cui sono stati superati i problemi relativi al blocco dell’opera ed è stato approvato l’aumento di capitale della società…». Non è questo, come si potrebbe immaginare, un anticipo del futuro prossimo. Bensì un salto nel passato. È un dispaccio dell’Ansa del 23 dicembre 2009. Sedici anni fa. Quel giorno il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli inaugurò in pompa magna il cantiere dei lavori per la deviazione della linea ferroviaria che sulla costa calabrese avrebbe interferito con la costruzione del pilone di cemento armato alto 400 metri. Il clima, nel centrodestra allora al governo, come oggi, ma con una distribuzione dei pesi diversa, era euforico. Tranne che dalle parti della Lega, che nella migliore delle ipotesi giudicava il ponte «inutile». Nella peggiore (della quale si incaricavano i peones del Carroccio), addirittura un affronto, in quanto toglieva risorse al Nord che aveva un bisogno drammatico di infrastrutture. L’opposizione era furiosa e batteva sempre sullo stesso tasto, condiviso anche dalla Lega: perché spendere tanti soldi per un’opera così costosa quando in Calabria le strade sono mulattiere e la Sicilia ha tutte le ferrovie a binario unico. Senza parlare del fatto che il ponte era un progetto solo sulla carta, visto che non esisteva ancora un progetto definitivo (sarebbe arrivato nel 2011). E il progetto esecutivo, che consente l’effettiva esecuzione dei lavori, era ancora ben al di là da venire.
Sappiamo poi com’è andata. Ma è utile ricordarlo. L’apertura del cantiere di Cannitello fu un’iniziativa quasi del tutto simbolica. Per due anni non successe praticamente nulla. Finché un bel giorno di ottobre del 2011, nemmeno tre settimane prima del tracollo dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi, l’Italia del Valori presentò alla Camera una mozione che impegnava il governo che voleva il ponte a tutti i costi a eliminare i finanziamenti per il ponte. E la mozione, incredibilmente appoggiata dallo stesso governo del ponte, per bocca dell’allora viceministro delle Infrastrutture Aurelio Misiti, per giunta calabrese a quattro ruote motrici, fu approvata. Passò alla grande, in un’assemblea controllata dal centrodestra, ovviamente Lega compresa. E a nulla servì l’indignazione del ministro ex missino Matteoli, che livido di rabbia si scagliò contro il suo viceministro («il suo parere favorevole era a titolo personale»). La frittata era fatta. Per la serie: mai dire mai. Tutto può accadere, anche nelle migliori famiglie.
Sedici anni dopo, riecco il sequel del film. Gli sceneggiatori de “Il Ponte che non c’è 2”, identici. Perfino il regista è lo stesso: Ciucci, ad della Stretto di Messina, ora come sedici anni fa. Solo il regista, Matteo Salvini, è diverso, come si conviene a un sequel che meriti rispetto. Con la differenza che il leader della Lega, lo stesso che nel 2016 manifestava pubblicamente contro l’opera, garantendo che secondo certi ingegneri non stava in piedi, ora ha cambiato idea. E siccome il saggio dice che solo i morti e gli stolti non cambiano mai idea, nessuno nel suo partito (anche se molti, moltissimi elettori storcono il naso) osa contraddirlo. Idem il resto del governo, a causa di ragioni per ognuno diverse. Il ponte era un cavallo di battaglia di Berlusconi e in Forza Italia (da cui pure nell’ottobre 2011 scoccò la scintilla che spedì l’opera in un cassetto per tre lustri) è un dogma. Mentre in Fratelli d’Italia l’evidente mancanza di entusiasmo è compensata dalla necessità di non turbare gli equilibri della maggioranza se ancora si pensa di condurre in porto la riforma del premierato tanto cara a Giorgia Meloni. Questo è il solo cemento del ponte capace di nascondere le crepe, enormi, che evidenzia la sceneggiatura del film.
Prima crepa: i soldi. E non perché i soldi non ci siano. Anzi. Pur di racimolarli li hanno tolti ad altre opere. Poi, non contenti di aver già speso circa 350 milioni di risorse pubbliche per studi e progetti nonché mantenere in vita per 45 anni la società concessionaria del ponte che non c’è, e che ora ha una novantina di dipendenti con una ventina di dirigenti assai ben pagati più un discreto stuolo di consulenti, ne hanno tirati fuori altri 370. Sono serviti per assicurare al Tesoro la maggioranza del capitale della Stretto di Messina spa, evitando rogne che con altri soci pubblici possono sempre capitare e gestire la partita dalla tribuna centrale senza interferenze. I soldi, dicevamo, ci sono. Almeno è quel che dicono le ultime finanziarie. Si era partiti con 3 miliardi. Poi si è arrivati a 6. Quindi a 9. Adesso sono 13 e mezzo. Ma più realisticamente, considerando anche il generoso contributo per gli espropri, si andrebbe verso i 15. Anche se girano già in ambienti non lontani dal ministero, stime ancora più sbalorditive: c’è chi non ritiene irrealistico un conto finale, considerando gli anni di lavori e i probabili intoppi, di 22 miliardi. Tutti pagati dallo Stato, questa volta. Non come quando, sempre sedici anni fa, il ministro Matteoli garantiva: «Nemmeno un euro dai contribuenti, sarà tutto a carico dei privati». Proprio così. Ma il problema dei soldi non è solo nella dimensione enorme della spesa. Il consorzio Eurolink che dovrebbe realizzare l’opera si è aggiudicato la gara nel 2005. Vent’anni fa, con un’offerta di 3,88 miliardi di euro e una composizione azionaria diversa. Ora, a parte il fatto che sono passati 11 governi e sono stati partoriti tre diversi codici degli appalti, ci sono pur sempre le norme europee. Che abbiamo contribuito a fare anche noi e non possono venire eluse. Secondo queste, nel caso in cui l’importo dell’appalto lieviti di oltre il 50 per cento prima dell’esecuzione, la gara va rifatta. Difficile girarci intorno, a meno di non riuscire a dimostrare che l’aumento a 13,5 miliardi non eccede di oltre il 50 per cento l’importo dell’aggiudicazione del 2005.
Seconda crepa: il progetto. Vent’anni nei lavori pubblici non sono come vent’anni nell’informatica. Ma se nel 2005 non esistevano nemmeno gli smartphone, impossibile affermare che le tecniche costruttive da allora non abbiano fatto passi da gigante. Per di più, come nel 2011 quando il ponte finì nel dimenticatoio, c’è il progetto definitivo ma non quello esecutivo. Per correre il più possibile si è ipotizzato (fonte Ciucci) di farlo a tranche, il progetto esecutivo. Un pezzo per volta. Possibile, in qualche caso è già stato fatto. Ma questo potrebbe comportare anche seri problemi tecnici e questioni economiche mica da ridere. Niente paura, dice il governo: alle controversie ci penserà un Collegio consultivo tecnico che sarebbe una specie di collegio arbitrale permanente profumatamente retribuito, magari con un consigliere di Stato alla presidenza. Consapevoli dell’enormità del compenso spettante ai suoi componenti (chissà quale lotta si sarà già scatenata per accaparrarsi quegli incarichi) gli autori del decreto infrastrutture hanno previsto una decurtazione del 50 per cento. Ma anche così l’Anac ha stimato un conto di 25 milioni.
Infine, la terza crepa: una forzatura acrobatica delle regole. C’è una norma, introdotta nel decreto infrastrutture, che conferma il potere dell’Authority dei trasporti sulla definizione dei pedaggi autostradali, estendendolo a tutte le concessionarie: comprese quelle regionali. La disposizione è spuntata dopo che si era ventilata l’ipotesi di far rientrare in ambito regionale la concessione del ponte sottraendola al controllo dell’Autorità. Dunque non si scappa: siccome chi lo attraverserà con auto, pullman o tir dovrà pagare una tariffa, anche il ponte è come un’autostrada a pedaggio. E questo dev’essere stabilito dall’Authority. Ciononostante, qualche giorno fa il ponte è stato varato dal governo con la delibera Cipess senza il parere, dovuto, dell’autorità. I suoi componenti hanno potuto leggere sui giornali che per Salvini gli automobilisti pagheranno meno di dieci euro. Senza che nessuno si sia chiesto come aveva fatto il ministro delle Infrastrutture a rendere noto un pedaggio che l’organismo competente a fissarlo non aveva mai fissato. “Il Ponte che non c’è 2” è cominciato. Buona visione a tutti.
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