C’è una nuova tv per il Sahel. Promette di rovesciare la prospettiva e decolonizzare l’informazione, oscurando almeno un po’ i media europei, a cominciare da quelli francesi. Il via alle trasmissioni è stato annunciato in Mali, Niger e Burkina Faso, ex domini di Parigi dove tra il 2020 e il 2022 sono salite al potere giunte militari. Notiziari e palinsesti? Per capire cosa andrà in onda bisogna fare un passo indietro, almeno a un sabato mattina di fine agosto.
Tra le nove e le dieci, alle porte del villaggio di Barsalogho, nel Nord del Burkina Faso, cominciano raffiche di fucili automatici. Ancora oggi non c’è ancora un bilancio ufficiale. Si sa che tra le vittime ci sono soldati, donne, bambini e «volontaires pour la défense de la patrie», i giovani delle comunità che servono nei gruppi di autodifesa. Video diffusi sulle reti sociali permettono di contare un centinaio di corpi senza vita, riversi in una trincea improvvisata che avrebbe dovuto permettere di respingere l’assalto.
Di quel sabato mattina si sono occupati giornali e testate europee, a partire da “Jeune Afrique”, rivista storica con base a Parigi che ha riferito di «una ecatombe» in cui ci sarebbero stati «fino a 300 morti». E di ciò che è accaduto ha parlato papa Francesco, denunciando «un attentato terroristico» ed esprimendo «vicinanza alla nazione intera».
A Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, la notizia ha invece circolato meno. Anche perché il capitano Ibrahim Traoré, 36 anni, alla guida della giunta militare, ha preferito il silenzio. Non un comunicato e non un post sui social network, muti per settimane. Solo un incontro con due emissari che hanno portato le condoglianze del Mali e del Niger: altre ex colonie francesi teatro di golpe, dallo scorso anno membri insieme con il Burkina Faso della nuova Alliance des États du Sahel (Aes).
Con i suoi appelli al patriottismo, al panafricanismo e all’anticolonialismo, la coalizione fa ora notizia con la nuova tv. Con il logo “Aes” dell’Alliance, ha il compito di contrastare sul Web tentativi di «disinformazione» in una fase decisiva, segnata dalle incursioni delle fazioni armate, a partire da Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin (Jnim), il gruppo associato ad Al Qaida che ha rivendicato l’assalto di Barsalogho.
Il progetto dell’emittente è stato presentato durante un incontro ospitato a Bamako e confermato dal presidente del Mali, il colonnello Assimi Goïta. L’appello è a un giornalismo «sovranista» e soprattutto «non disfattista»: niente a che vedere, insomma, con le cronache di reporter locali arrestati e poi scomparsi nel nulla come Kalifara Séré o Alain Traoré, popolare conduttore su “Radio Omega” del programma satirico “Le défouloir de Alain”. La televisione del Sahel dovrà dare voce all’avversione verso l’influenza a lungo esercitata dall’Europa e in particolare dalla Francia.
Ascoltate Rama Maiga, un’attivista che rilancia sui social lo slogan «Je suis Fama», in sostegno delle forze armate del Mali: «Era ora che arrivasse una nuova tv», dice a L’Espresso, «perché quelle europee ormai da tempo non sono più credibili». La critica investe emittenti come “France 24” e “Radio France Internationale”, ora al bando nei Paesi dell’Alliance, e in misura minore la britannica Bbc, che invece si può ancora vedere. «Stiamo combattendo una guerra e bisogna sostenere l’esercito, invece di fare disinformazione rilanciando la propaganda dei terroristi», è l’appello di Maiga. «Serve un giornalismo patriottico, come quello di Bienvenu Taonsa e Liradan Philippe, della tv pubblica “Rtb”: reportage dal fronte per documentare il sacrificio dei soldati che stanno dando la vita pur di proteggere i cittadini».
Un’altra storia rispetto alle denunce diffuse dalle ong straniere. Come l’americana Human Rights Watch che alcuni mesi fa aveva accusato i militari del Burkina Faso dell’esecuzione sommaria in due villaggi di oltre 220 civili sospettati di collaborare con i ribelli. La giunta aveva smentito e risposto con multe e sospensioni, colpendo anche Bbc e “Voice of America”. La tesi è che la loro sia un’informazione parziale, focalizzata solo su difficoltà e fallimenti anche per raggiungere obiettivi politici. «In una fase segnata da un cambiamento delle alleanze internazionali, con le giunte che rompono gli accordi militari con la Francia e ne siglano con nuovi partner, dalla Russia alla Turchia, c’è chi ha interesse a indebolire e magari far cadere i nuovi governi», dice a L’Espresso il politologo Alioune Tine, fondatore in Senegal del centro studi Afrikajom.
Il sospetto, il solito, è quello delle ingerenze francesi. E ora anche occidentali, nel Sahel che è parte dello scacchiere Nato del «Mediterraneo allargato»: confermate, queste ingerenze, da un post dell’ambasciata ucraina in Senegal su un ruolo di Kiev a supporto dei ribelli in lotta con l’esercito del Mali e con i paramilitari russi suoi alleati. La vicenda è diventata un caso diplomatico. E ha finito per accrescere il mito dei militari in lotta per la libertà del continente finora negata: quasi che il capitano Traoré fosse un nuovo capitano Thomas Sankara, il «Che Guevara d’Africa» assassinato a 37 anni dai golpisti, dopo avere denunciato le trame dell’imperialismo occidentale.
«Attenzione, l’elemento chiave è proprio la fragilità del potere», annota il politologo Tine. «Le giunte del Sahel hanno preso il potere rovesciando governi civili che non avevano una visione ed erano impopolari a causa della corruzione; oggi, però, nonostante il tentativo dell’Alliance, restano a loro volta esposte al rischio di nuovi colpi di Stato».