La confusione tra opera e autore e l’identificazione tra la regista e la protagonista rischiavano di far deragliare il film. Che invece seduce, diverte e convince

Se c’è un mezzo in cui la confusione tra l’immagine di un autore e la sua opera rischia di fagocitare l’opera stessa, quello è il cinema. Non si contano gli attori, i registi e soprattutto gli attori-registi che hanno cavalcato questa sovrapposizione o ne sono stati travolti. Il caso di Maïwenn, notissima in Francia, meno in Italia, è addirittura clamoroso perché la sua identificazione con Madame du Barry è totale, oltre che rivendicata con orgoglio in prima persona.

 

Figlia di un’intellettuale algerina e di un linguista francese, bellezza sghemba e perentoria, un’infanzia difficile poi rievocata nei suoi spettacoli da stand up comedian, ex-modella, ex moglie-bambina di Luc Besson (16 anni lei, 33 lui), regista di altri sei film tra cui il notevole e discusso “Polisse”, Maïwenn sognava di raccontare la favorita di Luigi XV da quando vide Asia Argento impersonarla in “Marie Antoinette” di Sofia Coppola. Così, dopo un lungo lavoro di scrittura, questa autodidatta che a 12 anni si sentì urlare dalla madre «è una vergogna che tu non conosca ancora Antonioni!» ha preso il coraggio a due mani e ha fatto il suo film. Tirando a sé in tutti i modi il personaggio. E affidando per colmo di faccia tosta il ruolo del re ormai 60enne e avvilito dalla perdita di Madame Pompadour, all’americanissimo e qui marlonbrandesco Johnny Depp.

 

Basterebbe molto meno per temere la catastrofe. Invece malgrado la voce narrante scolastica che apre e chiude il film, “Jeanne du Barry” seduce, diverte, convince. Maïwenn regista tiene al minimo il registro facile del pop e degli anacronismi alla “Marie Antoinette”, ma evita anche ogni accademismo per puntare tutto sullo slancio e sul contagioso divertimento con cui si tuffa nel ruolo. Accostando la corte del re, con i suoi codici e rituali infernali, alle regole non meno folli ma ferree vigenti nel mondo del cinema o della moda.

 

In una sarabanda di trovate che danno un retrogusto gioiosamente femminista alla piccola rivoluzione introdotta a Versailles da questa cortigiana venuta dal nulla ma capace di amare e farsi amare infrangendo tutti i diktat dell’etichetta. Anche se questo significava navigare a vista fra l’odio esibito delle figlie di Luigi XV (esilarante per protervia la fulva India Hair), i favori del potente Richelieu (impagabile Pierre Richard) e i velati consigli dell’occhiuto primo valletto del re, unica figura inventata (portentoso Benjamin Lavernhe). In un trionfo di echi pittorici e gioiose trasgressioni che investono in primis costumi e acconciature. Ma sempre sfuggendo come la peste la tentazione che zavorra tanto cinema in costume oggi. L’ideologia.

 

Jeanne du Barry
di Maïwenn,
Francia, 116’

 

AZIONE!
Giurie? Largo ai giovani. A Venezia quest’anno la selezione ufficiale è affollata di “senatori”, ma i presidenti delle tre giurie sono giovani di bellissime speranze. Damien Chazelle, Concorso, ha infatti 38 anni, Jonas Carpignano, Orizzonti, 39. Alice Diop, regista rivelazione di “Saint Omer”, Premio De Laurentiis Opera prima, 44.

 

E STOP
Vergognosamente ignorati a Cannes, trionfalmente riabilitati a Venezia, Roman Polanski e Woody Allen si prendono la loro rivincita. I loro due nuovi film, “The Palace” e “Coup de chance”, saranno presentati Fuori concorso al Lido. Ma fa uno strano effetto dover dire che talvolta l’Italia è più libera della Francia.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso