Mamadu, del Mali. Ibrahim, somalo. Arthur, della Costa d’Avorio. Venuti dai Paesi devastati da guerre e povertà del Continente nero. Ecco le loro storie e quelle delle famiglie che hanno deciso di ospitarli. Tra solidarietà e scontri con la burocrazia italiana (Foto di Michele D’Ottavio per l’Espresso)

Li chiama mamma e papà. Ascolta volentieri i loro consigli. Insieme a loro ha preso la terza media, ha ottenuto la patente e si è pure conquistato un biglietto da visita da imprenditore lavorando come artigiano nel laboratorio di automazione industriale della famiglia, all’ultimo piano di una villetta della campagna biellese.

Mamadu, un sorriso rotondo come il sole, a Claudia Tortello e Alberto Miglietti deve la sua seconda vita. «Non vi preoccupate, quando sarete vecchi sarò io a prendermi cura di voi: andremo in Mali a vivere in una villa gigantesca». Intanto però è questa famiglia di Biella, lui artigiano e lei contabile, che nel 2011 ha deciso di aprire le porte di casa a un profugo africano, regalandogli il futuro. «Ha iniziato mia figlia», racconta Claudia: «Portava a casa ogni tanto qualche ragazzo del centro di accoglienza di Muzzano con cui facevamo lunghe chiacchierate. Poi quando lei è andata a Bologna all’università noi abbiamo proseguito a frequentare i ragazzi».
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Dal 2011 i flussi migratori verso l’Italia sono diventati sempre più intensi: allora era la guerra in Libia a spingere i migranti, soprattutto africani, verso lo Stivale; poi nel 2013 la guerra in Siria. Ormai si tratta di centinaia di migliaia di persone in cerca di una nuova patria: un’emergenza talmente grande da spingere il Papa, ad agosto, a chiedere ai fedeli di ospitare un migrante a casa propria. Un’operazione non semplice: sono pochi i programmi, pochissima l’informazione.

Nel 2011, Claudia, complice la Caritas con il programma del 2013 “Un profugo a casa mia”, è stata un’antesignana. «Quando abbiamo deciso di offrire un lavoro ad uno dei profughi di Muzzano, la scelta di Mamadu è stata facile: era sempre gentile e puntuale agli appuntamenti, ci sembrava affidabile», racconta: «Nel dicembre del 2011 lo invitammo a fare l’albero di Natale e mio marito gli chiese anche una mano a cambiare una gomma dell’auto. Una specie di test prima di invitarlo a fermarsi a dormire da noi. Da allora non se ne è più andato». Come il figlio maschio che non hanno mai avuto.
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Una sua famiglia a dire la verità Mamadu ce l’ha ancora, ed è in Mali a coltivare i cereali. Non è stata la guerra a cacciarlo di casa ma la povertà. Analfabeta, prima era andato a Bamako, la capitale, in cerca di lavoro e si era messo a fare il piastrellista. Poi un imprenditore libico gli ha proposto di andare in Libia a lavorare per lui. Uno dei tanti africani che ai tempi di Gheddafi facevano girare l’economia di un Paese di 5 milioni di cittadini sussidiati dal petrolio e certo non dediti a lavori manuali. Nella primavera del 2011 la guerra però lo ha raggiunto. «I soldati di Gheddafi volevano che ci unissimo a loro per combattere i ribelli», spiega oggi Mamadu: «Ma io ero lì per lavorare, non per combattere. Così ci rinchiusero prima in una caserma cercando di convincerci a suon di botte e poi ci fecero salire su un barcone per l’Italia».
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È stata l’ultima vendetta di Gheddafi: fino a quel momento guardiano dell’emigrazione africana per conto degli europei, con il tradimento di questi ultimi il dittatore decide di far invadere il Vecchio Continente di disperati. Per Mamadu è la svolta: «Arrivammo in Sicilia ma fummo subito portati per nave a Genova e da qui a Biella, in un centro di accoglienza. Mentre aspettavo il risultato della mia richiesta di asilo è scoppiata la guerra in Mali e così ho ottenuto il permesso di restare in Italia». Ora Mamadu adora la bagna càuda e l’Alfa di famiglia e ha messo da parte anche il Ramadan. «Quando è arrivato rispettava il periodo di digiuno ma era troppo debole per lavorare, così gli offrii di restare a casa a riposarsi», racconta Alberto: «Invece ha smesso di digiunare e ha continuato a lavorare. Ora lui è musulmano come noi siamo cristiani».

A mantenere le sue abitudini islamiche è Ibrahim, 27 anni, il rifugiato somalo ospite a casa di Sandro, operatore sociale, e Arianna, ricercatrice universitaria, nella periferia di Parma. Ad attenderlo al suo arrivo in casa, lo scorso maggio, quattro bimbi tra i dodici e i due anni. E una lavagna nera all’ingresso con su scritto: «L’ospite come la brezza del mare porta sempre qualcosa di inaspettato o lungamente atteso». Anche Ibrahim è arrivato dal mare. E non è stato semplice. In Somalia, dove viveva, un giorno alcuni compagni di scuola appartenenti al gruppo affiliato ad al-Qaeda, gli al-Shabaab, gli chiedono di unirsi a loro per combattere contro il governo. E quando chiede al-Qaeda, è difficile rifiutare. Così Ibrahim decide di scappare: lascia la sorella e prende un aereo che lo porta vicino al confine con l’Etiopia. Da Addis Abeba arriva in Sudan alla ricerca di un lavoro. Non trovandolo, punta verso la Libia. Giunto nell’oasi di Kufra è preso in consegna dai soldati di Gheddafi e spedito in carcere a Bengasi, da dove riesce a uscire versando una mazzetta al capo della prigione.

«Era il 3 aprile del 2009», dice Ibrahim, che ricorda ogni data con la precisione tipica di chi ha familiarità con i numeri. Fino al 2011 rimane a lavorare come muratore, lui che in Somalia studiava Fisica all’università e nel tempo libero dava lezioni ai bambini che non potevano permettersi là di andare a scuola. Poi, con lo scoppio della guerra, fugge in Tunisia nel campo profughi di Soussa da cui fa ritorno in Libia per imbarcarsi alla volta dell’Italia. Qui passa prima per Taranto poi viene spedito a Conselice, in provincia di Ravenna dove rimane fino a che non ottiene lo status di rifugiato: è il 20 marzo del 2013. Questo è il momento più difficile per questi ragazzi in fuga: il permesso di soggiorno c’è, il lavoro e l’integrazione no.

Un conoscente di Bologna offre a Ibrahim un biglietto per tentare la sua fortuna in Svezia da cui però dopo poche settimane viene rispedito indietro perché già ufficialmente registrato in Italia. L’ospitalità di una famiglia italiana può fare la differenza. A toglierlo dai parchi è la onlus emiliana Ciac, operante nell’ambito del programma nazionale dello Sprar. Lo aiuta a ottenere un tirocinio e la patente e gli offre la possibilità di entrare in una famiglia e, finalmente, di imparare l’italiano. «Volevamo essere concreti rispetto al nostro desiderio di essere solidali ma avevamo anche bisogno di un progetto tutelato e protetto come questo di Parma», racconta Arianna: «I nostri bambini adorano Arthur e lui è per loro un’esperienza di vita incredibile». È l’Africa in casa. Il diverso in una dimensione intima e individuale. «Così l’immigrazione non spaventa».

Per convincere Roberto Pareschi invece c’è voluta Claudia, la signora che ospita Mamadu, una volta sua vicina di casa. «È lei che ha ispirato tante persone nel biellese», spiega Roberto, due figli maschi di 21 e 29 anni. Lui e Arthur, un ventenne della Costa d’Avorio, si sono incontrati sui campi di calcio: Roberto per qualche anno ha allenato una squadra di profughi africani che giocava nel circuito biellese. In Italia Arthur è arrivato con un aereo, aiutato da un centro evangelico di Abidjan, dopo avere lasciato la casa della matrigna che lo avrebbe preferito stregone in un villaggio anziché laureato in informatica. La madre l’aveva persa durante la guerra civile che ha devastato il paese fino al 2011; il padre, un politico locale, qualche anno più tardi. Anche Arthur, dopo avere ottenuto lo status di rifugiato per ragioni umanitarie, sarebbe finito per strada se Roberto non lo avesse accolto. E invece vorrebbe continuare a studiare: ora ha fatto domanda al Politecnico di Torino e nel frattempo è tirocinante in un’azienda informatica. «Non lo dice ma vorrebbe diventare una persona importante», sorride Roberto: «Deve solo superare le sue insicurezze, la paura di dire la cosa sbagliata e di non farsi capire».

La lingua non è certo un problema per il sempre maggior numero di minorenni che sbarca in Sicilia. Dopo 20 anni di tentativi di adozione finiti negli interstizi tra burocrazia e corruzione, per Marilena Turco la felicità è arrivata dal mare sotto forma di Remoon, un 14enne egiziano di religione copta dagli occhi dolci e la cresta in testa. Alcuni scontri violenti con compagni di scuola musulmani lo hanno convinto a scappare dalla casa di famiglia del Cairo, a imbarcarsi ad Alessandria per approdare a Siracusa. Per lui il futuro è passato tra le maglie di Accoglierete, associazione unica in Italia perché sfida la burocrazia pur di trovare un tetto a tanti minori immigrati non accompagnati.

«L’ho saputo da mia cognata che la prefettura invitava il comune a sollecitare le famiglie a prendere un bambino immigrato in affido e non mi sono lasciata scappare l’occasione», spiega al telefono questa impiegata comunale quarantenne che tanto avrebbe voluto avere un figlio nella vita. A casa sua e di suo marito, Remoon nel giro di sei mesi ha imparato l’italiano, è passato dall’istituto tecnico («troppo facile per lui») al liceo scientifico, e da due anni riempe di gioia una famiglia che altrimenti sarebbe rimasta «incompleta».

La sfida adesso per la burocrazia italiana e per gli italiani è non lasciare “incompleto” quell’impulso di solidarietà e accoglienza che, con la sua morte ingiusta, un bambino siriano dalla maglietta rossa ha messo in moto.

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