Robert Hamblin: «Ero un uomo che aveva bisogno di uscire dal corpo di donna»

Un’esistenza in fuga da finzione e ruoli di genere, oltre gli stereotipi, alla ricerca della propria identità. Trovata senza operazioni ma con una moglie e una figlia adottiva. E un’associazione che aiuta gli “unicorni” come lui a capire chi sono davvero

Improvvisamente le persone gli accordano quello che chiede senza difficoltà. Lo ascoltano senza che debba insistere. Perfino essere pagato la somma richiesta per un lavoro, senza sconto, diventa facile. È successo quando Adèle è diventata Robert. Quando il petto si è appiattito e la barba è cresciuta sulle guance magre. «Cambiare genere vuol dire cambiare rappresentazione sociale ad esso associata», racconta al telefono da Città del Capo: «Non sono solo il corpo e la voce che mutano ma anche le movenze e le aspettative della società». 


Quella di Robert Hamblin, 52enne artista sudafricano, è la storia di un lungo ed estenuante viaggio alla ricerca della propria identità cominciato inconsapevolmente quando era una bambina. Una ricerca tanto più difficile quanto più il corpo femminile ne costringeva modi e tempi di espressione in comportamenti che non gli appartenevano. «La narrativa transgender è quella di una lotta contro il proprio corpo», racconta. «Ma io amavo il mio corpo, i miei lunghi capelli. Ero però attratto da cose maschili, dal giocare a piedi scalzi nella fattoria, dall’indossare pantaloni e camicie a scacchi. Mia madre mi diceva che avrei potuto fare quello che volevo nella vita ma che avrei dovuto farlo da dentro un vestito. Viviamo in un mondo che ha ancora negozi separati per uomini e donne».

Nei giochi tra bambini Hamblin sceglieva sempre ruoli da maschio, come quando impersonava l’indiano e Vicky era l’infermiera, con quell’alito che sapeva di aglio e polpette al sugo, e i capelli di shampoo alla mela. E che ogni volta che la faceva salire sul suo cavallo immaginario avrebbe voluto baciarla, perdendosi in quegli odori. Poi, qualche anno dopo, da ragazzina, rifiutava di radersi e s’infilava in ampi pantaloni, uno stile strano ma che non la metteva ai margini della società, piuttosto la rendeva diversa. «Sentivo la distanza fisica con il resto del mondo, mi sentivo istintivamente scomoda con me stessa e con le prestazioni che gli altri si aspettavano da me, con la messa in scena della femminilità. E lo so che le femministe dicono che è difficile essere donna e che sono gli stereotipi a dovere cambiare, non noi. Ma io ho sempre avuto un grande desiderio di non avere quell’identità».

 

Da teenager passava per lesbica, e non era facile quarant’anni fa, in Sud Africa. Soprattutto non quando tuo padre ha abbandonato tua madre che tu avevi solo 18 mesi perché al matrimonio era stato costretto da genitori che non accettavano il fatto che fosse omosessuale. E tua madre ha sempre cercato di metterti al riparo da certe “devianze”, regalandoti anche un nuovo padre, una nuova casa e un nuovo futuro. Ma un adolescente, si sa, non ha bisogno di certezze. Piuttosto di strumenti con cui infrangerle. E a 16 anni Hamblin incontra il padre, che la accoglie nella sua vita stile “Il Grande Gatsby”, un universo in cui i confini tra lecito e illecito erano labili, la notte come il giorno. In cui donne con i tacchi a spillo convivevano con uomini in bikini. Erano i favolosi anni Ottanta e lei vi si immerge con ogni centimetro della sua pelle, scoprendo il sesso, l’amore, la droga, l’alcol che conforta e unisce, un andirivieni di artisti e attori, la cui vita era una messa in scena senza soluzione di continuità, come racconta nel suo libro di memorie, intitolato “Robert”, scritto negli ultimi due anni. «Recitavano tutto il tempo e scomponevano il significato di genere, tuffandosi in esplorazioni continue. Ne ero diventato il custode».

Intanto aveva preso a fotografare senza sosta. Prima i ragazzi muscolosi della sua scuola, le cui foto vendevano bene tra le ragazzine, poi lavorando per un giornale locale, tra cronaca nera e rosa. «Ma non avevo dei modelli a cui ispirarmi, qualcuno in cui potermi riconoscere e di cui seguire le orme». Il padre lo avrebbe voluto fare sbocciare in una donna sensuale e lui invece gli rubava i jeans dall’armadio. Ma non era felice. Ingrassava e dimagriva a colpi di decine di chili. Fino a quando, sulla soglia dei trent’anni, si trasferisce in Texas per vivere con una donna lesbica.

Ed è a Houston che Hamblin scopre «un altro modo di essere donna», come definisce colei che incontra prima su Internet e poi dal vivo, prima di capire che quella lei era a tutti gli effetti un uomo. Un uomo “sex-change” come si diceva allora. Un uomo “transgender”, come diciamo oggi. L’ingresso in quel mondo le amplia le possibilità di futuro. L’universo trans diventa il luogo dove potere essere uomo anche senza avere un organo sessuale maschile, in cui sessualità e identità potranno finalmente coincidere. «Erano gli anni in cui Internet permetteva per la prima volta di raggiungere persone lontane, di incontrare la propria comunità di appartenenza». Di ritrovare un modello in cui riconoscersi, di fare domande a lungo tenute dentro. Come quando un amico gli confessa online che sta per entrare in sala operatoria in Thailandia per liberarsi del suo organo genitale e trovare l’allineamento con il proprio essere femminile. Hamblin chiede, senza pensarci troppo, «ma com’è stare dentro una donna?» e dall’altra parte partono insulti a lettere cubitali: «Ma non capisci che sto rifuggendo quella sensazione, che è una vita che cerco di capire la sensazione opposta?». «È stata lei a farmi comprendere che io avevo il suo stesso problema, al contrario. Che ero un uomo che aveva bisogno di uscire dal corpo di donna», dice ora.

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A quel punto ogni evento precipita nel successivo senza frizione. Vivere una vita da donna lesbica non ha più senso. Hamblin, allora conosciuta come “la Annie Leibovitz sudafricana”, come lei artista della fotografia e lesbica, lascia la sua donna texana e rientra in Patria. Qui, con l’aiuto di chi diventerà sua moglie, a 35 anni, dà inizio alla transizione. «Non dimenticherò mai quella sensazione di compiutezza che ebbi dopo sei settimane dall’inizio della terapia, quando stavo guidando lungo la costa rocciosa su cui sorge Città del Capo, con il cielo blu sulla testa, la mia futura moglie a fianco. Ho sentito che la vita era finalmente mia. Per la prima volta mi sono sentito normale».
A cambiare in quel momento non era stato tanto il fisico - ancora non passava per un uomo - ma il livello di testosterone nel sangue. «Ero riuscito finalmente a curarmi», racconta, «perché di cura si tratta», dice senza mezzi termini. «Non che valga per tutti. Ci sono persone binarie che non hanno bisogno di cambiare il proprio corpo. E altre invece che devono avere dei nuovi genitali e diventare completamente uomo o donna. Poi ci sono quelli come me, quelli che chiamo gli unicorni, con una sensibilità speciale. Ma la cosa fondamentale è che oggi, molto più di vent’anni fa, possiamo allontanarci dall’identità che ci è stata assegnata alla nascita per affermare la nostra. Ci troviamo in un momento di grande cambiamento sociale. Stiamo cominciando a capire che la disparità sociale tra uomini e donne è la causa di tanti mali perché è evidente che le società in cui le donne hanno potere sono società di successo». Paradossalmente è l’uomo la categoria ancora prigioniera degli stereotipi: «Un uomo che indossa una gonna rischia la vita».


Per oltre un decennio Hamblin diventa attivista a tempo pieno a favore dei diritti delle persone transgender e insieme alla moglie fonda l’associazione “Gender Dynamix” a cui spesso si rivolgeranno anche le istituzioni pubbliche per gestire le problematiche transgender dei meno abbienti. «Se provieni da un ambiente privilegiato è più facile rivendicare i tuoi diritti», dice. «Bianco, classe media, io potevo pagare le medicine, farmi operare, gestire il mio dolore. Ma per chi è nero, povero e nasce in un ambiente ostile è tutto molto più difficile». In quel caso la strada finisce per diventare l’opzione più ovvia. Ed è così che si crea l’equazione persona transgender uguale lavoratore del sesso. «Lavorare con loro mi ha fatto vedere tutto quello che non funziona nel mondo. Quando i teenager sono cacciati di casa per la propria espressione di genere finiscono in un mondo criminale fatto di sesso per soldi e di droghe, e la maggioranza non arriverà ai 40 anni».
La sua battaglia personale, essere riconosciuto come uomo anche senza l’operazione ai genitali, una volta vinta, diventa il nuovo standard. Non è stato facile. Dal 2004 esisteva in Sudafrica una legge che permetteva di cambiare i documenti sulla base delle dichiarazioni di due dottori. Ma nella vita quotidiana la sua applicazione era un calvario che aveva molto più a che fare con le amicizie politiche che con la parola scritta. Oggi è più facile per tutti.
 

Sono quegli gli anni in cui arte e vita si confondono e si ispirano vicendevolmente. Il tema è sempre lo stesso, la transizione – di genere, di arte, di vita. Ma cambia con il procedere degli anni. «Prima della transizione ero una foto-giornalista, poi con il cambio di sesso e l’attivismo sociale ho cominciato a fare foto sempre più sfocate, sempre più artistiche solo su temi che mi stavano a cuore, usando tinte scure». A cambiare è anche la comunità di riferimento: «Il mio comportamento maschile andava bene alle mie amiche lesbiche finché avevo forme femminili. Non più quando mi è cresciuta la barba». Ma intanto era cresciuto il progetto di vita con la moglie. Stava arrivando una figlia adottiva. E con lei una nuova comunità.

Nell’ultimo biennio, con la chiusura in casa imposta dal Covid-19, è il tempo di un’ulteriore transizione. «Avevo comprato carta e pittura per intrattenere mia figlia e i suoi amici mentre i genitori lavoravano ma alla fine ho finito per giocarci io». Posata la macchina fotografica afferra i pennelli. Il bianco e nero lasciano lo spazio al colore, ogni tipo di colore, come l’arcobaleno. E il cervello lascia la scena al corpo. «Dipingere è un’esperienza viscerale. Non penso a cosa dipingerò ma alla fine mi rendo conto che sono sempre corpi, corpi con cicatrici. Corpi maschili che hanno sofferto. Corpi che ricordano il mio».

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