Ultima stazione: Pokrovske. È in questa cittadina che il viaggio in treno verso l’est dell’Ucraina si interrompe. I russi hanno bombardato la stazione ferroviaria di Kramatorsk un mese fa, uccidendo decine di ucraini in fuga dal Donbass, la regione che Mosca vuole sua ad ogni costo. L’immensa pianura rigata di sangue dove nei prossimi mesi si deciderà il futuro dell’Ucraina, sovrana o, ancora una volta, vassalla della Russia.
Si continua in auto. La guerra non ha umiliato la primavera: esplosioni di bianco e giallo e rosa colorano le pianure di un verde infinito che ricopre le ricchissime miniere di carbone, gas e litio che sventrano il territorio, rendendolo ambito. Il contrasto con la città di Kramatorsk è scioccante. L’assenza l’ha resa grigia.
Quei pochi abitanti che vi sono rimasti, tra saracinesche abbassate e carburante sempre più scarso, escono di casa al mattino. Attraversarla in auto è questione di pochi minuti. Poi solo veicoli militari, jeep della Croce rossa e un paio di auto con la scritta “Press” sul cruscotto. L’obiettivo è Lyman, uno dei tanti villaggi del Donbass sbriciolati dai recenti scambi di colpi tra russi e ucraini.
Superata la cittadina di Severodonetsk, incrociamo un bus che arriva dalla direzione opposta. Trasporta gli ultimi abitanti in fuga dall’assedio. Chi rimane aspetta l’arrivo dei russi. Non ha scelta o non vuole averla.
Colonne di fumo nero rigano l’azzurro del cielo. I boati dell’artiglieria diventano sempre più netti. Incrociamo due anziani in bicicletta. A quarant’anni qui sei già vecchio. «Siamo andati a trovare mio fratello a Raihodorok», dice in russo Alexander Teslenko, 48 anni: «Ha dovuto lasciare Lyman oggi, è devastata». Accanto a lui una donna: «Gli ucraini stanno distruggendo il Donbass. I russi colpiscono solo obiettivi militari, gli ucraini tirano sui civili». «Dove l’ha visto?». «Non l’ho visto. L’ho sentito dire». Dalle televisioni scorre la propaganda che attribuisce la responsabilità della guerra agli ucraini. Kiev è lontana, Mosca dietro l’angolo in queste frange di regione dove poco è cambiato dagli anni Ottanta.
Una jeep della Croce rossa sfreccia a grande velocità e imbocca la strada a est. Lo imbocchiamo anche noi quel sentiero. Le colonne di fumo sono vicinissime. Ad una fermata dell’autobus due soldati parlottano in piedi, irrequieti. «È sicuro continuare?». «Bombardano il ponte ferroviario sul fiume», fa in tempo a dire uno dei due quando un boato costringe lui a riparare contro il muro dell’edificio. Sciami verdi di soldati sbucano dai boschi, noi lasciamo Raihodorok. In ucraino significa «villaggio del paradiso»: oggi è l’inferno.
«Dobbiamo denunciarlo alla polizia», dice Wova, l’autista, riferendosi a Teslensko: «Credo sia un sabotatore che indica ai russi le posizioni ucraine». Diffidenza e paura sono il canovaccio di una regione spaccata tra filorussi e filoucraini. Durante l’epoca sovietica questo era il luogo in cui Mosca spediva i russi indesiderati perché fossero lontani dal cuore dell’impero. Una sorta di colonia penale. I nuovi arrivati si sono riciclati in minatori e hanno popolato la pianura, ingrandito i villaggi. Gli oltre quattro milioni di abitanti oggi parlano tutti russo. Nonostante i 30 anni d’indipendenza del Paese, l’ucraino è diventata lingua d’insegnamento solo tre anni fa, con l’elezione di Volodymir Zelensky.
Ma le cose avevano cominciato a cambiare già nel 2014, l’anno della rivoluzione di piazza Maidan, quando la Russia invade una parte della regione e costringe Kiev a un referendum sull’indipendenza, proclamando le due Repubbliche di Donetsk e Luhans’k. «Prima del 2014 circa l’80, forse il 90 per cento, della popolazione sosteneva la Russia», racconta Ruslan Trebuskin, 46 anni, sindaco di Pokrovske, davanti a un supermercato con metà scaffali vuoti: «Oggi la Russia ha ancora il supporto più o meno esplicito di metà della popolazione. Ma questa guerra lo erode ogni giorno».
Trebuskin, diventato businessman con la Perestroika, entra in politica con il partito pro russo di Viktor Yushchenko. Propagandava equidistanza tra Europa e Russia, salari alti e basso costo della vita: «Esattamente quello che voleva la gente del Donbass», dice con un sospiro: «Ma con la rivoluzione di Maidan abbiamo perso la neutralità tra Occidente e Russia. E ora, dopo tutto questo sangue, non è più possibile tornare indietro. La Russia è diventata come gli Stati Uniti che abbiamo sempre odiato». Il male e il bene si confondono. «Pensavo che Putin fosse un grande leader che si prendeva cura del suo Paese, da noi solo inetti e corrotti. Ora si è tolto la maschera».
Da quando è iniziata la seconda offensiva, il 18 aprile, i russi avanzano in Donbass lentamente ma incessantemente, palmo a palmo, a est come a sud, dove stanno consolidando il corridoio che passa anche per la regione di Zaporizhia e unisce il Donbass alla fascia costiera. Se riusciranno nell’intento avranno strangolato il Paese, privandolo sia degli idrocarburi del Donbass sia dell’accesso ai porti.
Nel 2013 la Shell aveva firmato un accordo da dieci miliardi di dollari per estrarre shale gas nel Donbass per 50 anni. Avrebbe reso l’Ucraina meno dipendente energeticamente dalla Russia, più vicina all’Europa.
L’anno dopo Mosca ha inviato i carri armati. «Ma perché non arrivano più in fretta le armi occidentali?», chiede con ansia “Doc”, alzando la testa dalla trincea in cui è di guardia, a pochi chilometri dal fronte meridionale dove lo incontriamo sul sottofondo dei mortai. Tra i commilitoni del reparto è l’unico che parla qualche parola di inglese, lui che a 50 anni ha appeso alla spalliera della sedia la giacca e la cravatta da responsabile finanziario di una startup Internet con 30 dipendenti a Kiev e si è infilato la mimetica, scegliendo di dormire nei chilometri di tunnel che gli ucraini stanno scavando nella loro terra per resistere all’invasione russa.
«La mia vita l’ho vissuta», dice: «Due mesi fa ho salutato mia moglie e mia figlia. Ora servo la mia nazione. Anche per chi non ci crede, almeno non ancora. Slava Ucraina», gloria all’Ucraina.
Non è facile. I russi sono decisi a non mollare. Sanno di essere numericamente superiori, più uomini e più armi, e hanno preso a distruggere un villaggio dopo l’altro, costringendo i soldati rimasti allo scoperto ad arretrare e a infilarsi in trincee talmente coperte che poco più avanti, una settimana fa, quando un gruppo di soldati si era deciso ad uscirne durante una pausa dei continui colpi di artiglieria, si è ritrovato i russi ad accoglierli. «Resistiamo ma i numeri non sono a nostro favore», dice “Doc” mentre un carro di artiglieria leggera attraversa un campo di grano poco distante, in direzione delle colonne di fumo che si moltiplicano all’orizzonte.
A ridosso della linea del fronte i villaggi di Hulyaipole e Schevchenko sono colpiti a rotazione tutti i giorni. Alle 7,30 del mattino un missile ha mancato per pochi metri la scuola dell’infanzia di Schevchenko, infrangendone i vetri e scavando un enorme cratere. Il capitano Andryi vi scivola dentro per prenderne le misure: «Noi non abbiamo armi così devastanti», dice desolato. È il terzo cratere scavato nei vicoli sterrati in una settimana. «Non mi ricordo il giorno esatto del bombardamento precedente perché non esco quasi più di casa», dice Halya, 70 anni «circa», che qui è rimasta con il figlio Sasha: «Ho paura, tanta paura, anche la mia capra ha paura e non fa più latte». Il tetto della casa è stato bucato dalle schegge di quel missile. Ha distrutto il cucinotto dalle mura azzurre che Sasha aveva costruito in cortile. Con la primavera la neve si è sciolta ed è possibile sopravvivere in una casa senza tetto, né pavimento. Meno male che c’è l’insalata nell’orto e i sacchi di patate in cantina. Ad andarsene lei e il figlio non ci pensano affatto: «Non sapremmo dove andare, che fare. Chiunque porti pace a noi va bene».
Insieme agli uccelli che in un duetto macabro alternano il loro cinguettio alle raffiche di mortaio, saranno rimasti una decina di civili nel villaggio di Schevchenko. Aspettano di essere difesi dai soldati ucraini o conquistati dai russi. «Questione di pochi giorni, forse una settimana», dice Yevsheni, il comandante del drappello di stanza mentre con un calcio sfonda la porta di legno di una cantina alla ricerca di un riparo per parlare al sicuro qualche minuto: «Poi, se non arrivano rinforzi dovremo abbandonarla. Abbiamo provato a contrattaccare ieri ma non ci siamo riusciti. Non abbiamo abbastanza armi. Giochiamo in difesa». Occhi chiari come il cielo sotto riccioli chiari anche loro, schiacciati dall’elmetto e dal visore, a sessant’anni il comandante non ha tempo per l’ottimismo. «Ditelo, qui non è il Vietnam: noi siamo stati aggrediti». Un colpo di mortaio fa tintinnare due barattoli di cavolo sotto aceto. «Facciamo fatica a difenderci da soli. In gioco non c’è solo il futuro dell’Ucraina, anche quello dell’Europa». Che si sappia soprattutto in Italia, dove lui ha una figlia trentenne, «a Pordenone», aggiunge mentre risale le scale della cantina, per andare incontro ad una pattuglia di soldati che chiede istruzioni. Un nuovo attacco di artiglieria è appena iniziato.