Il bus verso l'ostello è arrivato. Tatiana Trotzok, 25 anni, afferra di corsa la coscia di pollo che sta mangiando nel campo di raccolta rifugiati a Zaporizhia e la infila nella tazza di caffè ormai vuota per portarla con se insieme a Daisy, la cagnolina yorkshire di cinque anni. Accanto a lei la madre e il marito. Sono due mesi che mangia solo zuppa in scatola e biscotti, al freddo su un tavolo di fortuna costruito con le assi di legno trovate nell'acciaieria dove si era nascosta. Trotzok fa parte dei 156 rifugiati della fabbrica Azovstal a Mariupol che sono stati tratti in salvo dalle Nazioni Unite, durante un viaggio in territorio occupato dai russi durato due giorni.
«Ci siamo rifugiati in Azovstal all'inizio della guerra perché mia madre lavorava lì ed era certa che sarebbe stato un posto molto sicuro», inizia a raccontare lei. «Per quattro giorni ci eravamo accucciati nel corridoio di casa, una appartamento al terzo piano di una palazzina periferica, sperando che i bombardamenti finissero presto. Poi nella notte tra il primo e il secondo giorno di marzo abbiamo sentito missili volare sul tetto. Quattro sibili lunghissimi seguiti da quattro esplosioni. Con la quinta la lampada notturna a forma di luna è uscita dalla presa e ha preso fuoco. In pochi minuti abbiamo deciso di lasciare casa».
Una decisione tempestiva. Pochi giorni dopo l'edificio è stato distrutto.
«Quando siamo entrati in uno dei bunker dell'acciaieria non c'era nessuno dentro. I soldati sono arrivati il 4 marzo. Abbiamo tentato di lasciare l'acciaieria il 3 marzo per cercare la nonna con cui avevamo perso ogni comunicazione». Il telefono non funzionava. Sono bastate poche ore sotto i colpi continui dell'artiglieria per capire che non saremmo mai riusciti a raggiungere la sua casa in centro. Così siamo rientrati nel bunker di Azovstal, dove siamo rimasti insieme agli altri, 43 persone in tutto, fino a tre giorni fa quando hanno aperto i corridoi umanitari». Prima di uscire dalla fabbrica hanno lasciato un biglietto con i numeri di telefono della nonna, l'indirizzo, i loro contatti, nella speranza ancora viva che qualcuno la trovi nei prossimi giorni. O l'abbia già trovata.
Daisy annusa il bicchiere di latte che porta la volontaria, poi beve senza sosta. Trotzok mostra le braccia sporche, nere fino alle spalle, giù oltre la caviglie: «Sono tutta nera, non mi lavo da un mese. Perdonate il cattivo odore». L'unica acqua all'interno dell’acciaieria era quella usata dalle macchine refrigeranti per gli altiforni. Ce n'era in abbondanza per bere ma senza elettricità non arrivava nei bagni. Le quattro toilette devono essere svuotate manualmente fuori dal bunker nei piani superiori dell'acciaieria quando i bombardamenti conoscevano una pausa. «Ci lavavamo con l'antisettico per tenere a bada le infezioni».
Dentro il bunker la vita era lenta, scandita dalla cura dei bisogni primari: il tè la mattina, gli abbracci di chi ha paura, l'evacuazione della toilette, gli strilli di terrore dei bambini quando i bombardamenti diventano più intensi e le porte del bunker erano aperte per fare entrare un po' d'aria dai piani superiori; la zuppa cucinata per il pranzo; i pianti di chi non ce la fa più; le notizie che arrivano dalla radio. E che fanno discutere, che fanno passare le ore e danno o tolgono speranza a seconda dei giorni. Poi i latrati acuti dei cani, dei dieci piccoli cani portati nel bunker insieme ai bambini da un popolo che impazzisce per gli yorkshire e gli spitz. Ogni tanto i soldati portavano farina e burro, le caramelle per i bambini e il borotalco per i neonati, qualche medicina. «Sono stati fantastici con noi».
Ma era il buio il tratto dominante della vita nelle viscere della terra. Un buio che «inizialmente fa paura e poi ti obbliga ad arrenderti, a non pensare, a pregare magari», dice Tatiana. «Sono una leader di natura», continua lei che tre anni fa ha lasciato il posto da ingegnere elettrico in Azovstal per cercare un lavoro migliore in una multinazionale dell'high-tech nella regione del Donetsk. «Non sono come gli altri a Mariupol, non mi accontento», sorride sicura: «Durante tutte queste settimane ho cercato di tenere sempre lo spirito alto per tutti, anche quando abbiamo creduto che da lì non saremmo mai usciti, che saremmo morti di fame, pentendoci di non avere tentato la fuga prima, insieme a quei dodici che alla fine di marzo hanno preso coraggio e sono usciti. Non ce la facevano più. Mi guarda. Improvvisamente ha un'idea. «Ho il numero di Olga con me: la chiamiamo per vedere se è ancora viva?» La riunione telefonica è il trionfo della vita. «Olga mi aspetta a occidente dove è più sicuro», dice Tatiana: «È lei che sottoterra aveva disegnato questi tattoo che conservo nella cartellina insieme ai miei diplomi. Ora è il momento di farsene fare uno, qui su queste braccia che stasera saranno finalmente pulite». Per festeggiare la salvezza. Non ancora la vittoria.