
Osteggiato dal regime di Bourguiba prima e da quello di Ben Ali poi, dopo vent’anni di esilio, Gannouchi è tornato in Tunisia nel 2011, accolto da migliaia di sostenitori e dalla preoccupazione dell’area laica del Paese. In questi cinque anni Ennahda è stato protagonista di una solida vittoria elettorale nel 2011 (37 per cento), ha avuto un ruolo determinante nella stesura della nuova Costituzione e ha saputo farsi da parte lasciando la guida della Tunisia a un governo tecnico quando il consenso intorno al partito cominciava a vacillare. Contemporaneamente il partito è stato accusato da più fronti di aver assunto un comportamento ambiguo nei confronti del salafismo e di altri movimenti fondamentalisti. La prova cui oggi Gannouchi mette di fronte gli iscritti di Ennahda, la fine dell’Islam politico, è incoraggiata con vigore dai suoi sostenitori, mentre i suoi detrattori ritengono che sia l’ennesima mossa ambigua e retorica per tranquillizzare i governi occidentali e perseguire il percorso sotterraneo della costituzione - a lungo termine - di uno Stato islamico. Il leader concede questa intervista a “l’Espresso” nella sede di Ennahda.
Rashid Gannouchi, perché ha voluto questa svolta storica?
«Siamo musulmani democratici. Siccome il termine islam politico è stato preso in ostaggio dal terrorismo di al Qaeda e di Daesh (acronimo arabo per lo Stato islamico), noi abbiamo il dovere di distinguerci da questi criminali. Per Daesh la democrazia è haram, è vietata. Per noi è necessaria».
In pratica come cambierà l’attività degli iscritti al suo partito?
«Non è un passaggio di rottura con il passato ma vogliamo specializzarci nell’attività politica. Gli imam in moschea non possono più essere dei responsabili politici. Alcuni imam sono membri del nostro partito, se eletti dovranno scegliere tra il parlamento e l’attività religiosa. Non vogliamo più che le moschee siano dei luoghi di propaganda politica ma che siano solo un luogo di unione per tutto il popolo tunisino. La religione non deve essere più un mezzo per accrescere il consenso».
Rinunciando alla funzione di Dawah (proselitismo), non temete che il vuoto possa essere riempito da gruppi estremisti?
«L’attività nelle moschee va controllata. Chi ha una funzione di responsabilità nelle moschee deve essere specializzato in campo religioso e ora solo il 7 per cento degli imam lo è. Il terrorismo è dilagato per questo. In troppi si sono improvvisati imam diffondendo messaggi corrotti. Negli ultimi tempi l’obiettivo del governo è stato controllare la presenza di nuclei salafiti che hanno messo pesantemente le mani nelle attività delle moschee tunisine. Questa attività di pulizia sta lentamente dando i suoi frutti. Adesso vogliamo nelle moschee solo persone equilibrate e esperte di scienze religiose».
Il numero di ragazzi partiti dalla Tunisia per combattere in Libia, Siria e Iraq è imponente: 6000. Voi di Ennahda in passato siete stati accusati di prossimità con gruppi salafiti. Ora lanciate questa campagna perché dopo le stragi terroristiche nel Paese avete bisogno di riguadagnare consenso?
«La responsabilità primaria della devianza di questi giovani è un’eredità del regime di Ben Ali e di Bourguiba. Al tempo della rivoluzione c’erano tremila salafiti nelle prigioni di Ben Ali e altri erano in esilio. Tunisi era un centro delle scienze religiose un tempo, poi i tunisini sono stati influenzati dalla modernizzazione francese e hanno chiuso questi importanti centri piegandosi a un secolarismo incontrollato. Il movimento islamico è stato perseguitato e questo ha creato una frattura religiosa nella società. I giovani che hanno vissuto solo la persecuzione dei movimenti islamici, dopo la rivoluzione hanno subito una cattiva interpretazione del messaggio religioso».
Lei in passato è stato criticato per essersi occupato di questioni formali legate alla vita religiosa dei cittadini, trascurando gli aspetti pratici, in un Paese in cui in alcune aree la disoccupazione giovanile tocca il 50 per cento. Se avesse di fronte uno di questi seimila ragazzi cosa gli direbbe?
«Cercherei di spiegargli che quello che sanno dell’Islam è una menzogna. Dobbiamo aiutarli a incontrare la vera immagine dell’Islam, una religione di vita e non di morte. Questi ragazzi sono vittime dell’ignoranza, del fallimento educativo, sociale ed economico. Gli direi che come prima cosa dobbiamo dare loro un lavoro garantendo la dignità di una vita onesta. Questo è il nostro programma per il futuro: occuparci degli strati poveri della società».
Molti analisti sostengono che dietro l’abbandono dell’Islam politico si celi un cambio di marchio del suo partito per rassicurare l’Occidente dopo le stragi di Sousse e del Bardo. A chi spetterà in futuro il compito di diffondere il messaggio religioso?
«Chi vuole diffondere il messaggio religioso si dovrà staccare dal partito e fondare associazioni indipendenti che si occupino solo del messaggio religioso».
Risposta ambigua. Se una parte degli iscritti si stacca dal partito continuerete ad occuparvi del proselitismo sotto altre spoglie.
«Sono molti i responsabili del partito che se ne andranno, sì. Ma non è una svolta solo formale. La nostra idea è ripartire dall’educazione, dalle piccole cose che possano raccontare ai ragazzi e alla gente cos’è l’Islam. Se serve il teatro, il cinema e le arti metteremo in campo anche quelle».
Cosa significa la svolta per gli altri partiti islamici di quest’area?
«Non vogliamo esportare alcun modello. Vogliamo solo capire come salvare questo Paese e se succederà saremo felici. Ci auspichiamo che tutti i partiti islamici della regione possano essere più aperti e lavorare con altri cercando un consenso comune».
Se guarda al confine delicatissimo tra la Tunisia e la Libia, agli scontri tra esercito tunisino e miliziani dell’Is a Ben Guardene e alla piaga dei foreign fighters pensa che un muro, al confine, sia la soluzione?
«Noi appoggiamo con forza il nuovo governo libico e dobbiamo renderci conto che non è più solo il momento di difendersi ma anche di attaccare. Guardate cosa sta succedendo a Sirte. Si è passati dalla difesa al deciso tentativo di annientare questi terroristi».
Che ruolo vuole avere nella nuova Tunisia?
«Voglio poter essere portavoce di un messaggio di riconciliazione nazionale. Abbiamo il dovere di riconciliare quello che è venuto dopo la rivoluzione del 2011 con quello che c’era prima. Il Paese deve poter unire tutte le anime islamiche. Chi avrà in mano il Paese deve ascoltare le parti più povere della società».
L’Italia è il secondo partner economico della Tunisia, qui ci sono 800 aziende italiane. Lei pensa che l’Europa dopo la rivoluzione abbia abbandonato il Maghreb al suo destino?
«Il rapporto con l’Italia è strategico, non solo in termini economici ma ovviamente geografici. Abbiamo bisogno di investimenti, di incontri bilaterali, di progetti economici. Di occupazione per i nostri giovani. La Tunisia deve ripartire dallo sviluppo dell’economia che poi determinerà lo sviluppo delle coscienze. Quindi dai paesi europei ci aspettiamo un piano di investimenti che dia fiducia ai nostri giovani disoccupati».
Sono successe molte cose in questi anni: il suo ritorno in Tunisia, la stesura di una nuova Costituzione, la minaccia terroristica e gli sforzi di modernizzazione. Secondo lei arriverà anche il momento di inserire la parola laicità nella costituzione tunisina, un giorno?
«La Tunisia non è un Paese laico, la laicità e un’esperienza che i tunisini hanno mutuato dalla Francia e non c’entra niente con il sistema di questo Paese. La laicità è un modo per combattere la religione. E noi vogliamo che il governo tenda prima la mano alla religione, pur assicurando la libertà per tutti».