Poter vivere una vita autonoma e indipendente nella comunità, su base paritaria, secondo i propri desideri e capacità, significa che alle persone con disabilità devono essere garantiti la protezione sociale e i servizi di supporto adeguati alla complessità dei loro bisogni e delle loro preferenze personali, seguendo un approccio centrato sulla persona». È quello che si legge nella Carta di Solfagnano, redatta lo scorso ottobre durante il primo G7 inclusione e disabilità. Ma il percorso per rendere concrete le priorità delle persone con disabilità incontra ogni giorno degli ostacoli. E tra queste difficoltà c’è anche la proroga della legge che mette a rischio la loro autodeterminazione.
La riforma rappresenta un cambiamento profondo. L’obiettivo è superare una logica istituzionalizzante, puntando sulla permanenza nella comunità e sulla piena partecipazione alla vita sociale. Per rendere concreto questo approccio, si introducono una serie di interventi: dal rafforzamento dei servizi sociali sul territorio alla revisione delle procedure per il riconoscimento della disabilità, fino alla promozione di progetti per la vita indipendente e, infine, la valorizzazione di gruppi di persone esperte capaci di accompagnare chi ha bisogni complessi.
La proroga alla nuova legge non è solo un’anomalia giuridica, ma presenta diverse criticità. Anziché entrare subito in vigore, la norma prevede una fase di sperimentazione. «Ma le leggi si applicano, non si sperimentano», denuncia Alice Sodi, attivista di Persone, coordinamento nazionale contro la discriminazione delle persone con disabilità. Dopo l’annuncio del rinvio al 2027 da parte della ministra per le disabilità Alessandra Locatelli, diverse associazioni – tra cui Persone, Movimento Antiabilista e Unasam – stanno facendo rete contro il depotenziamento della misura.
«Per le persone con disabilità certi temi e rivendicazioni sono un’emergenza, eppure finiscono sempre in secondo piano», afferma Ilaria Crippi, attivista impegnata sulle questioni legate all’accessibilità. «Bisognerebbe chiedersi cosa ci impedisce di considerare i diritti delle persone disabili una priorità e perché, invece, continuiamo a trattarli come qualcosa che si può rimandare, proprio come sta accadendo con questa riforma».
È stato annunciato l’allargamento della sperimentazione – dal 30 settembre 2025 – ad altre dieci province (Alessandria, Lecce, Genova, Isernia, Macerata, Matera, Palermo, Teramo, Vicenza, Provincia autonoma di Trento, Aosta) che si vanno ad aggiungere alle nove già individuate in precedenza (Brescia, Catanzaro, Firenze, Forlì-Cesena, Frosinone, Perugia, Salerno, Sassari e Trieste). Saranno ampliati i territori e le patologie prese in considerazione (oltre ad autismo, sclerosi multipla e diabete mellito di tipo 2 già individuati in precedenza, sono state aggiunte anche le cardiopatie, le broncopatie, l’artrite reumatoide e le malattie oncologiche), ma queste modifiche rimangano un tentativo parziale di rispondere alle necessità delle persone con disabilità. «Una sperimentazione di questo tipo non avrà nessun valore: saranno poche decine le persone per territorio che potranno accedervi. Quindi quale tipo di dato dovrebbe emergere?» si interroga Sodi. «Finché il diritto di vita indipendente non diventa qualcosa di garantito per tutte le persone non è un sistema che funziona», aggiunge invece Crippi.
La sperimentazione doveva partire a gennaio 2025 per concludersi nel dicembre dello stesso anno, ma non sono chiare le ragioni della sua estensione. Un altro problema è costituito dal non aver comunicato all’osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (Ond) lo slittamento temporale per l’applicazione del decreto. Inoltre, a dicembre 2026 scade il tempo giuridicamente stabilito entro il quale è possibile proporre emendamenti migliorativi. Ci sono, infatti, dei correttivi da suggerire: «Il decreto presenta un difetto di delega perché, mentre nella legge di delegazione viene ribadito il riferimento alla “deistituzionalizzazione”, questo termine scompare nel decreto 62», precisa Sodi.
Un altro problema è rappresentato dal ruolo delle grandi associazioni che, nel corso degli anni, sono diventate interlocutori istituzionali «rivestendo contemporaneamente la veste di rappresentanti dei diritti delle persone con disabilità e gestori di servizi», racconta Sodi. Si configura così un conflitto d’interesse «perché queste associazioni risultano i più grandi gestori di servizi sul territorio italiano». L’obiettivo della deistituzionalizzazione, inoltre, crea un corto circuito: le strutture esistenti devono capire se e come riconvertire la loro funzione. In questo contesto, la proroga della riforma sembra una strategia per guadagnare tempo.
Con l’entrata in vigore della norma le persone potrebbero immediatamente esigere il proprio progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato che ha una configurazione diversa rispetto a quanto previsto dalla legge 328/2000. Secondo quest’ultima, il progetto di vita viene redatto attingendo ai servizi già presenti sul territorio, invece «nel progetto di vita previsto dalla riforma si parte dalla persona, dall’indagine dei suoi desideri e aspettative» dice Sodi. La riforma richiede anche una riorganizzazione del sistema di welfare. «Si vuole far coincidere la riforma con l’attuale sistema dei servizi che è proprio ciò che dovrebbe cambiare. C’è una tendenza conservatrice – conclude Sodi – che sembra un modo per poter dire di aver fatto una sperimentazione e aver constatato che la riforma è troppo complessa da attuare».