È qui, in Toscana, che si è concentrato l'ultimo rapporto dal “Centro nuovo modello di sviluppo” della campagna “Abiti Puliti”. Una relazione da leggere, che racconta i traguardi raggiunti ma anche e soprattutto i problemi ancora scoperti in quella che i dipendenti chiamano “la Repubblica del Cuoio”, una repubblica dove vigono leggi a parte. A partire dal lavoro.
A Santa Croce sull'Arno aprono le porte ogni mattina 240 concerie. Che diventano 500 se si contano i laboratori “per esecuzioni specifiche”, terzisti a cui sono affidati i mestieri di riserva. Fra i primi e secondi c'è una differenza netta, per quanto riguarda i lavoratori: una media di 200 euro di stipendio.
E un abisso in termini di diritti e possibilità. I problemi più gravi, raccontano le testimonianze raccolte nel rapporto, stanno nelle aziende piccole o piccolissime che popolano il settore. E che sfuggono facilmente ai controlli: per tutta la provincia di Pisa – 45mila aziende, fra le quali le concerie sull'Arno – ci sono soltanto 11 ispettori a tempo pieno, di cui 2 tecnici.

Gli impiegati elencano così controlli concordati, o semplicemente assenti. Nonostante i risultati diano segnali d'allarme: dal primo gennaio 2011 al 31 dicembre 2014 sono state ispezionate 185 aziende, per 1.024 lavoratori: 217 fra loro risultavano irregolari, 116 totalmente in nero. Uno su 10 lavorava cioè completamento scoperto da tutele e diritti in un settore che è considerato tutt'ora “rischioso”, o almeno decisamente delicato, sotto molti punti di vista: dallo sforzo fisico nel maneggiare le pellacce, all'esposizione alle sostanze chimiche con cui vengono trattate.
Segnali positivi non mancano. Come il fatto che nel distretto gli assunti negli ultimi anni siano aumentati. Ma in posti molto più precari di prima: gli impiegati attraverso agenzie interinali infatti sono raddoppiati, passando da 1.733 nel 2012 a 3.451 nel 2014, contando oggi per il 28 per cento del totale. Sui 5.650 nuovi assunti del 2014, solo mille erano alle dirette dipendenze: tutti gli altri risultavano contrattualizzati da un'agenzia.
Nella “Repubblica del Cuoio”, poi, il rapporto con gli interinali ha un significato tutto suo. Come racconta la storia di Sylla, senegalese, impiegato nella concia a Castelfranco di Sotto dal settembre del 2005. Per 10 anni ha spostato, tagliato, pulito, separato, scarnato pelli, sempre per la stessa ditta. Ma questa non l'ha mai assunto direttamente, solo attraverso un'agenzia.
Visto che lui era bravo però, in gamba, e sapeva ormai fare bene il suo mestiere, il padroncino (7 operai in tutto, una macchina vecchia che rovinava le pelli ma che il proprietario – pensionato – non voleva cambiare) lo teneva in ostaggio: si era messo d'accordo con l'agenzia che Sylla avrebbe potuto lavorare solo per lui. Nonostante spesso non ci fossero commesse, così, e che quindi il giovane senegalese chiedesse di andare in altre imprese (come solitamente fanno gli interinali), per guadagnare un po' di più: niente, l'agenzia lo teneva "in ostaggio". Come voleva il padrone. Che aveva così il tempo di Sylla al 100 per cento ma nessuna responsabilità nei suoi confronti - contributi, diritti, ferie, straordinari…
Oltre al tema del lavoro, l'inchiesta approfondisce poi il problema dell'impatto inquinante della concia. Sia “a monte” - per il costo ambientale degli allevamenti e dei macelli da dove partono le pelli di cui hanno fame i marchi del lusso – sia “a valle”: per il consumo d'acqua e lo smaltimento delle sostanze chimiche usate per rendere la schiena di capre o bovini materiale per scarpe, giubbotti e cinture.
Sull'Arno, raccontano nel rapporto, sono stati fatti sforzi massicci dopo “la giungla” degli anni '70 per depurare i liquidi usati nel trattamento. Ma restano anche qui nodi irrisolti: i depuratori di “pelli conciate al vegetale”, infatti, riescono a sfruttare e riutilizzare bene i fanghi che restano nelle loro vasche. Quelli a cui arrivano invece acque passate per trattamenti al cromo, mandano ancora la maggior parte dei residui in discarica. Non riuscendo a superare l'ostacolo dell'impatto ambientale. Oltre che sociale. Delle nostre scarpe.