Le Olimpiadi sono la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Il barone de Coubertin proverebbe amarezza. Se il rivoltarsi nella tomba fosse una disciplina ammessa dal Cio, l’aristocratico francese sarebbe medaglia d’oro ogni quattro anni. A Rio però lo scontro politico internazionale batterà ogni record precedente. Dopo i boicottaggi incrociati Usa-Urss del 1980 (Mosca) e del 1984 (Los Angeles), nella città fluminense si è andati a un passo dall’espulsione in massa degli atleti russi sulla base del principio della responsabilità collettiva. La tesi era che sotto Vladimir Putin si pratica il doping di Stato. Ergo, ogni russo è dopato. Domenica 24 luglio il Comitato olimpico internazionale (Cio) presieduto dal tedesco filorusso Thomas Bach ha attenuato l’impostazione massimalista. L’ostracismo colpirà l’atletica leggera ma anche lì la federazione internazionale potrà decidere caso per caso.
È stata esclusa a sorpresa la mezzofondista Julija Stepanova, che è stata la gola profonda delle rivelazioni sul doping modello Cremlino. Di sicuro parteciperà la divina Darija Klishina, saltatrice in lungo che vive in Florida ed è controllata dall’agenzia antidoping statunitense, un marchio di garanzia che funziona a intermittenza.
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Alta velocità. È la gara simbolo dei Giochi. I 100 metri piani di atletica sono il momento chiave di ogni Olimpiade. Il favorito, tempi stagionali alla mano, non è il fulmine giamaicano Usain Bolt, reduce da un infortunio, ma Justin Gatlin newyorkese di Brooklyn. Nel 2016 Gatlin ha i primi due tempi più veloci sui 100. Nel 2015, l’anno della sua rinascita, addirittura aveva il suo nome accanto ai primi cinque tempi più veloci.
Il caso dovrebbe richiamare l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Gatlin è stato trovato positivo all’antidoping due volte e sospeso dalle competizioni per complessivi cinque anni. Ha perso le medaglie vinte e il record mondiale. Prima della sospensione e dopo la sospensione fa gli stessi tempi. Delle due l’una. O ha smesso di drogarsi e ha così dimostrato ai medici di tutto il mondo che il doping non serve. Oppure continua, con metodi privati e non statali come i russi, ma nessuno se ne accorge. Naturalmente bisogna tifare per la prima ipotesi. Se il doping non serve, si estinguerà perché è inutile, oltre che nocivo.
Una situazione simile a quella di Gatlin l’ha vissuta il marciatore altoatesino olimpionico privato di medaglia dopo la sua positività. Scontata la squalifica, Schwazer si è ripresentato in gara vincente come prima. Purtroppo il suo caso sembra rientrare nella seconda ipotesi. Ha continuato a doparsi ed è stato beccato di nuovo. L’atleta azzurro ha contestato, insieme al suo allenatore Sandro Donati, i risultati dei test. È stato prima escluso poi iscritto con riserva. La giustizia sportiva deciderà il 4 agosto e anche la magistratura ordinaria si occuperà di un eventuale complotto ai suoi danni. Niente complotto per Nesta Carter, compagno di squadra di Bolt nella staffetta 4x100 a Pechino 2008. Si dopava e la squadra della Giamaica, Bolt incluso, ha dovuto riconsegnare la medaglia.
Squali a Carpi.
In una selezione azzurra in cui il nuoto rischia di superare la scherma per numero di medaglie conquistate, e sarebbe solo la seconda volta dal 1984, Gregorio Paltrinieri da Carpi (Modena) è l’erede della lunga epopea di Federica Pellegrini, portabandiera dell’Italia in Brasile.
L’avversario principale del ventunenne Greg è il fenomeno cinese Sun Yang. Il primatista mondiale dei 1500 metri stile libero è stato squalificato per uno stimolante nel 2014. Tariffa popolare: tre mesi. L’anno scorso ai Mondiali di Kazan, dopo avere ottenuto il miglior tempo nelle qualificazioni, non si è presentato alla finale lasciando la corsia vuota e la vittoria a Paltrinieri. Soltanto a gara conclusa si è saputo che Sun aveva avuto un mancamento. Nel 2008 la Cina ha vinto le Olimpiadi a Pechino dopo un’egemonia fra Usa e Urss che durava da Berlino 1936. Doping di Stato in Cina? Ma va. La leggenda nera di Ma Junren, l’allenatore che ha portato le atlete cinesi a vincere tutto a fine Novanta a colpi di doping, appartiene al passato. O così pare fino a prova contraria. A Pechino 2008 si drogavano, come è emerso dalle liste di positività pubblicate dal Cio grazie ai nuovi test su vecchi prelievi a ridosso della cerimonia inaugurale del 5 agosto. Tutti, tranne i cinesi.
A Rio ci sarà anche, ed è la sua quinta volta, Mike Phelps. Il nuotatore di Baltimora, recordman assoluto di medaglie olimpiche (22), è considerato il più grande del suo sport, oltre che un esempio di sport pulito. Eppure nel 2009 fu abbandonato dagli sponsor per una foto in cui impugnava un attrezzo per fumare marijuana.
Rifugiati e olimpionici.
Secondo le ultime stime dell’Unhcr, i rifugiati sfiorano i 60 milioni di persone nel mondo, più o meno la popolazione italiana. Oltre a Klishina e Stepanova sotto la bandiera del Comitato olimpico internazionale sfileranno i dieci partecipanti dell’Internazionale Profughi, presenti per la prima volta ai Giochi. Sono due nuotatori di origine siriana, due judoka congolesi, cinque atleti del mezzofondo scappati dal Sudan meridionale e un maratoneta etiope. Fra gli atleti più attesi della rappresentativa c’è Yusra Mardini, che vedremo nei 200 stile libero, la gara preferita di Federica Pellegrini. Yusra ha 18 anni e la sua gara più difficile finora è stata spingere a nuoto una zattera di profughi che stava naufragando a largo delle coste greche.
In un’Olimpiade messa a rischio, oltre che dal doping, dall’epidemia di Zika e dalla delinquenza (un morto ammazzato ogni due ore nel fine settimana del 2-3 luglio con 27 omicidi in 48 ore), il team targato Unhcr è una scommessa vinta in partenza. L’uomo dietro le quinte dell’operazione si chiama Filippo Grandi, è di Milano, ha 59 anni e dal gennaio del 2016 è alto commissario dell’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati.
Darija, Libania e i neoitaliani
È bionda anche lei come Klishina. Anche lei salta, anche se la sua specialità è il triplo. Si chiama Darija Derkach, è nata in Ucraina da genitori atleti. Allenata dal padre, è stata tesserata dall’Atletica Vis Nova Salerno e oggi vive poco distante, a Pagani.
È una dei venti atleti azzurri che non sono nati in Italia. Quelli di origine cubana sono la maggioranza relativa con cinque rappresentanti, tutti fortissimi. Spiccano il lottatore Frank Chamizo, il pallavolista Osmany Juantorena, nipote dell’immenso Alberto Juantorena, ex olimpionico degli 800 metri piani e poi ministro di Fidel Castro. Cubana di Santiago è la Panterita Libania Grenot, che ha stracciato le avversarie nei 400 metri piani agli ultimi europei di Amsterdam, tre settimane fa. Libania ha detto che vuole battere il mondo, dopo l’Europa. Non sarà facile per niente ma ci proverà.
A Rio ci sarà anche un’italiana che gareggia per la Costa d’Avorio nel tiro con l’arco. È Carla Frangilli da Gallarate, sorella di Michele, oro a Londra non qualificato a Rio. Il padre Vittorio allena gli ivoriani e si è portata dietro la figlia che non è riuscita a trovare posto nell’Aeronautica militare.
Fioretti, fucili e mazze da golf
La rappresentativa italiana si aspetta il solito buon raccolto dagli sport che, nei quattro anni precedenti i Giochi, nessuno considera. Nel tiro a volo si rivedrà Jessica Rossi, oro a Londra. Nella scherma ci sarà il solito squadrone di fiorettiste con Elisa Di Francisca, campione uscente, e Arianna Errigo, argento a Londra ma oro agli Europei in Polonia di fine giugno. Fra le discipline si rivedrà il golf con il veneto Matteo Manassero. Debutta, il rugby, lo sport di squadra più maltrattato nella storia dei Giochi, accolto nella versione ridotta, il rugby a sette. Niente Italia nella palla ovale. Ma nemmeno nella palla a spicchi (basket) dove la presunta nazionale più forte di sempre non è riuscita a qualificarsi pur giocando la partita decisiva in casa (Torino) con 15 mila tifosi in tribuna. E nemmeno il pallone più amato vedrà maglie azzurre essendo il calcio olimpico lo sport a squadre più maltrattato in Italia con lo straccio di un solo bronzo ad Atene nel 2004.
Sarà un problema di atleti o di dirigenti? Come sempre, se ne parlerà dopo i Giochi.