Un altro anniversario, trenta tondi. Con le precauzioni anti-Covid il 9 agosto si tornerà a commemorare l’assassinio di Antonino Scopelliti, ucciso con due colpi di fucile calibro 12 nell’estate del 1991 a Campo Piale, lungo una strada isolata, dritta e stretta che sale verso la collina nel punto in cui la Calabria è più vicina alla Sicilia.
L’omicidio del sostituto procuratore generale della Cassazione, incaricato di sostenere la pubblica accusa nel terzo grado del Maxiprocesso di Palermo, ha galleggiato per trent’anni fra le correnti micidiali di Scilla e Cariddi, con sei piste investigative e altrettanti moventi, otto indiziati dell’agguato con nome e cognome più vari altri non identificati, decine di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, due processi contro la Commissione provinciale guidata da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Senza una condanna. Senza un solo criminale calabrese a processo.
Due anni fa, la svolta. Il pentito della mafia catanese Maurizio Avola, autore di decine di omicidi, ha accusato del crimine se stesso e il lungolatitante Matteo Messina Denaro da Castelvetrano. A sostegno, ha fatto ritrovare un fucile sotterrato che sarebbe servito a uccidere il giudice nato a Campo Calabro nel 1935. Due anni di perizia balistica su quello che è ormai un rottame, e altri accertamenti sono in corso. Nel frattempo Avola, patrocinato dall’avvocato messinese con studio a Torino Ugo Colonna, si è inserito da protagonista anche nel “Borsellino quater” dove ha rilasciato dichiarazioni inattendibili con l’unico risultato di mettere zizzania fra magistrati, fra giornalisti, dopo il libro di Michele Santoro e Guido Ruotolo, e fra avvocati, con Colonna attaccato dal suo ex socio di studio Fabio Repici, difensore del re delle intercettazioni Gioacchino Genchi e parte civile in vari processi di mafia (Beppe Alfano, Nino Agostino, Bruno Caccia, il medico Attilio Manca), associato in studio con l’ex pm palermitano Antonio Ingroia.
Avola sostiene che ogni causale alternativa a Cosa nostra è una perdita di tempo. La Commissione retta da Riina con pugno di ferro è mandante ed esecutrice. Il magistrato reggino è stato ucciso per intimidire la Suprema corte. Dopo il boomerang della conferma delle condanne il 30 gennaio 1992, la vendetta ha colpito il 12 marzo l’andreottiano Salvo Lima, immemore degli amici “punciuti”, poi Giovanni Falcone il 23 maggio 1992 e Paolo Borsellino il 19 luglio.
Semplice, lineare. Il tanfo di Stato infedele che accompagna da sempre stragi e omicidi irrisolti dell’Italia repubblicana sarebbe pura suggestione. Del resto, Avola ribadisce ciò che Falcone stesso aveva anticipato ai colleghi reggini a poche ore dal delitto e messo per iscritto in un articolo sulla Stampa, il 17 agosto 1991, quando forse già parlava più da politico che da magistrato: sono stati i siciliani.
La riapertura dell’inchiesta su Scopelliti è opera di Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria. I suoi processi più recenti, Gotha e “’ndrangheta stragista”, hanno lavorato per sovvertire un’idea semplicistica del crimine organizzato calabrese, in cerca del suo vero asse patrimoniale che è il rapporto con la politica al massimo livello, senza le tentazioni eversive attribuite ai corleonesi.
Lombardo sa che Avola va preso con le molle. Sa anche che nel caso Scopelliti due sentenze di assoluzione in secondo grado, confermate dalla Cassazione, sono una montagna difficile da scalare. «Quasi impossibile», dichiara lui stesso con l’aria di chi è abituato a ricostruire frammenti di verità negate o ridotte a versioni consolatorie, dove la ’ndrangheta è un antistato di montanari arricchiti dalla cocaina anziché una società di servizi richiestissima da componenti delle istituzioni, capace di applicare con astuzia - Lombardo usa il dialetto - la strategia del “trasi e nesci”. Entrare per compiacere i soci siciliani, uscire per non tagliare i ponti con il potere democratico che seppellirà di ergastoli la Commissione di Riina.
UN ASSASSINIO FACILE
Le carte dei processi per l’omicidio Scopelliti sono una rassegna di terminologia giuridica costruita intorno ai processi di mafia nel corso degli ultimi quarant’anni. Si va dalla “convergenza del molteplice”, chiave per comporre in un quadro coerente le dichiarazioni dei collaboratori, alla “triste utilità” dei pentiti stessi.
Il caso del 9 agosto 1991 è un processo indiziario che ha fallito l’obiettivo della “causale certa e univoca” perché basato su elementi contrastanti. Si sottolinea che il ruolo del magistrato calabrese, accusatore di terzo grado, non era decisivo nel verdetto sul Maxi e che ucciderlo poteva soltanto esasperare la reazione dei giudici. Le ricostruzioni dell’agguato affidate ai periti balistici non collimano. Il comportamento del magistrato di Campo Calabro a ridosso della sua morte è contraddittorio. La sua stessa figura umana e professionale oscilla fra l’integrità etica più assoluta, che lo avrebbe condannato rispetto ai tentativi di avvicinamento per aggiustare il Maxiprocesso, e una rete di rapporti vischiosi con le conoscenze d’infanzia in un’area ad altissima densità mafiosa, dove locali di ’ndrangheta ricchi e potenti sono passati per associazioni di guappi di paese.
«Strenuo difensore della legalità», ma anche «per attitudine caratteriale portato al contatto umano» e «soggetto particolarmente vicino ai Garonfalo». Questa è la descrizione di Vittorio Sgroi, al tempo procuratore generale e superiore diretto di Scopelliti. Ma Falcone aveva tagliato corto: Scopelliti era un giudice integerrimo ucciso dai siciliani.
Il rapporto tra i due è un punto irresolubile della vicenda. Il 12 febbraio 1991, quando l’Italia intera grida allo scandalo per le scarcerazioni dei mafiosi, il calabrese e il palermitano si erano scontrati in diretta tv da Corrado Augias. Scopelliti aveva difeso d’ufficio la Cassazione, incluso Corrado Carnevale che, da presidente della prima sezione, aveva l’esclusiva dei processi sul crimine organizzato. A “Telefono Giallo” Falcone, che stava per trasferirsi da Palermo a Roma su chiamata del Guardasigilli Claudio Martelli, appare stupito ma tiene basso il tono della polemica. Nessuno saprà mai se i due hanno avuto modo di riparlarne in privato, di trovare un punto d’accordo dopo che Carnevale si era spogliato del verdetto sul Maxi a fine aprile 1991, in polemica con Martelli e dopo che il magistrato di Campo Calabro aveva assunto l’incarico di pm, informalmente a fine giugno e formalmente nell’ultima decade di luglio.
Qui c’è una prima anomalia, una delle maggiori. La mafia siciliana aveva condannato a morte Falcone nel 1983. Per compiere il delitto ci sono voluti nove anni conclusi dall’“attentatuni”, un’azione militare che ha fatto saltare in aria un’autostrada. Fra la decisione di uccidere di Scopelliti e l’esecuzione passano quindici giorni. Il magistrato muore solo sulla sua Bmw poco dopo le 17, nella piena luce estiva, lungo un itinerario che ripeteva identico dal suo arrivo in Calabria per le vacanze iniziate il 25 luglio. Muore in una zona controllata dai clan in modo capillare. Da sei anni a Reggio e provincia imperversava una guerra che, secondo stime prudenziali, si è chiusa proprio a ridosso dell’agguato a Scopelliti con un saldo di 700 morti uccisi in ogni modo: con le autobombe, con i bazooka per risolvere l’ostacolo delle macchine blindate, con cecchini che sparano dentro il carcere da duecento metri.
Ma Scopelliti è assassinato facilmente e finora nessun processo ha saputo spiegare perché. Secondo alcuni testimoni era preoccupatissimo. Eppure non chiede la scorta, non denuncia minacce né tentativi di corruzione, non si confida se non con “messaggi sibillini”, come nota la sentenza d’appello del 28 aprile 1998 contro Riina e altri nove capi mandamento palermitani. Per di più insiste nella sua routine quotidiana contro il principio di Falcone per cui non si fanno favori ai nemici. Un principio sacrosanto non solo per il diritto all’autodifesa ma perché un magistrato in prima linea contro il crimine è patrimonio di tutta la comunità civica. Eppure la prima linea per Scopelliti, a 56 anni, era un’abitudine.
DICIASSETTE SICILIANI A ZERO
Il 15 maggio 1971, l’Unità titolava “Il pm chiede l’assoluzione per cinque degli anarchici”. Era il processo per gli attentati del 25 aprile 1969, che ispirò il film “Sbatti il mostro in prima pagina”. Giangiacomo Feltrinelli era tra gli imputati che il pm Scopelliti riconobbe innocenti dalle accuse di Rosemma Zublema, raccolte dal commissario Luigi Calabresi. Altri tre anarchici, Paolo Braschi, Angelo Della Savia e Paolo Faccioli, furono condannati a pene poi diventate definitive.
A poco più di trent’anni Scopelliti era già un magistrato di punta tanto che, in un periodo drammatico per la Repubblica, passa da Milano a Roma (7 novembre 1969), da Roma a Milano (29 novembre 1970) e di nuovo nella capitale il 12 giugno 1973.
In vent’anni da quel titolo dell’Unità il livello dei processi dei quali Scopelliti si era occupato lascia sbalorditi. Dopo i rapinatori della banda Cavallero aveva seguito i casi di terrorismo legati a Pietro Valpreda, Aldo Moro, piazza della Loggia, ai giudici Vittorio Occorsio e Mario Amato, al colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, al giornalista Walter Tobagi, al sequestro del docente milanese Pietro Trimarchi che vedrà implicato il leader del Movimento studentesco Mario Capanna. Si era occupato dei banchieri Michele Sindona e Roberto Calvi, protagonisti dei maggiori scandali finanziari di quegli anni, entrambi collegati al crimine organizzato. Aveva trattato direttamente il tema mafioso con gli omicidi del capitano Emanuele Basile, dell’inventore del pool Rocco Chinnici e della strage del treno 904 dove era imputato il boss di Porta Nuova Pippo Calò. In questo processo aveva assunto una posizione contrastante, ma ininfluente sul verdetto, rispetto al presidente Carnevale.
Che Scopelliti fosse legato al gruppo andreottiano, retto dal proconsole Claudio Vitalone e dal fratello avvocato Vilfredo, reggini anche loro, è certo come erano certe le relazioni del magistrato con gli ambienti vaticani. Ed è un fatto che il suo assassinio avvenga durante l’ultimo dei sette governi del Divo Giulio, lanciato verso una corsa al Quirinale che sarà stroncata dalla strage di Capaci.
Per sapere se nel nuovo processo si parlerà anche di questo bisognerà aspettare i nomi degli accusati. Al momento l’elenco degli improcessabili, fra morti e vivi protetti dal ne bis in idem, è di diciassette persone. Da Riina a Provenzano, da Nitto Santapaola ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, c’è un pezzo di storia della mafia siciliana. C’è soprattutto la sua sconfitta. Quello che manca sono i calabresi, entrati e usciti senza danni da due processi. Dopo trent’anni sarebbe l’ora di giustificare l’assenza.