Giovani
1 dicembre, 2025Limitazioni, uso consapevole, regole, con l’aiuto di genitori e scuola. E sanzioni, dice lo psicoterapeuta esperto di dipendenza tecnologica
Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario, è presidente dell’associazione Di.Te con la quale da 22 anni si occupa di dipendenza tecnologica, isolamento sociale volontario e cyberbullismo. Il 29 novembre a Roma per la 9ª Giornata nazionale sulle dipendenze tecnologiche e cyberbullismo saranno presentati i risultati dello studio “Bambini Digitali” svolto da Di.Te e Società italiana di psichiatria di consultazione su 6.666 famiglie coinvolte con bambini tra 0 e 6 anni.
Perché è più difficile contrastare i fenomeni legati alla dipendenza digitale?
«Siamo passati dall’essere fruitori, a creatori della rete. Abbiamo iniziato a metterci un pezzo delle nostre identità. Emblematico l’esempio di Facebook: non chiede come stai o cosa fai, ma “cosa stai pensando?” Il pensiero è qualcosa di intimo. Poi ci sono gli algoritmi e tutto ciò che è studiato per tenerci continuamente collegati».
Cosa ricercano i ragazzi nel mondo online che l’offline non è in grado di dargli?
«Queste tecnologie si inseriscono perfettamente in una società dove c'è assenza, ansia e sofferenza. I ragazzi sono senza un progetto di vita e di futuro, sono depressi. Tra guerre, malattie, morte, crescono con una visione tragica del mondo. Alla fine si chiudono in una stanza e poi non escono più. Esistono più di 200 mila isolati sociali volontari in Italia».
Come incide l’uso eccessivo dei social sulla qualità delle relazioni reali?
«La distanza digitale diventa distanza relazionale. Il genitore deve informarsi sul mondo online del figlio, meno lo farà, più si allontanerà da lui. Se un ragazzo sta dieci ore online, perché non chiedergli come va quel mondo? Però il problema ha origine fin dalla tenera età. Se tu metti un bambino arrabbiato o annoiato davanti allo schermo si placa subito. Ma quel bambino non acquisisce la capacità fondamentale di gestione della rabbia o della frustrazione. Domani la cercherà in una sostanza o in una relazione tossica, poi quando magari verrà lasciato e non sarà in grado di farsi da parte finirà per fare del male all'altro o a se stesso».
I social espongono i giovani a confronti con modelli insostenibili. Quali fragilità psicologiche rischia di alimentare?
«Con i social siamo tutti dentro uno stato alterato di coscienza, un po' come le droghe. Propongono standard economici, estetici, esperienziali irrealizzabili. Il giovane che non rispetta questi modelli si sentirà sbagliato. Una ragazza in sovrappeso presa in giro a scuola e continuamente derisa, stando a casa può giocare online e qui trovare amici, fare belle esperienze, essere valorizzata. Poi è difficile convincerla che uscire di casa è meglio».
Perché gli smartphone andrebbero introdotti molto più tardi nella crescita?
«In adolescenza, l’amigdala, sede delle emozioni e dell'impulso, appalla la corteccia prefrontale, che avrebbe la funzione preposta alla razionalità e al blocco dell’impulso. Noi abbiamo deciso di dare la patente automobilistica a 18 anni per un principio cognitivo. Lo stesso accade con i social, i ragazzi vengono bombardati costantemente da stimoli, partecipano alle challenge in cui rischiano la vita perché non hanno la limitazione della corteccia prefrontale che si forma intorno ai 21-22 anni, quando maturiamo».
Come agire a livello normativo?
«La soluzione è il patentino digitale perché ci dev’essere un obbligo, anche sanzionatorio. Il ragazzo deve affrontare un percorso obbligatorio insieme ai genitori, i quali devono saper garantire dei limiti, altrimenti incorreranno in ammende».
È stato introdotto il divieto di uso degli smartphone durante l’orario scolastico, è efficace?
«Non possiamo far passare l'idea che il problema sono i ragazzi che usano male lo smartphone, il punto è fornire insieme allo strumento delle regole. Il divieto non propone soluzioni, ma riconosce i ragazzi come dipendenti da disintossicare, le scuole come comunità e i docenti come operatori di comunità. Vietando, si rende lo smartphone ancora più attraente. Quando escono da scuola cosa faranno? Bisogna educare, sanzionare ed è fondamentale limitare, non vietare».
La cronaca ha riacceso il dibattito sulla prevenzione del bullismo, è fondamentale la velocità nell’intercettare i segnali. Come intervenire prima?
«Il tempo è il vero killer quando c'è un problema di cyberbullismo o di bullismo.Noi dovremmo fare una norma che preveda un tempo certo di attivazione. Se viene scoperto un caso di bullismo questo dev’essere segnalato ed entro 24/48 ore il servizio psicologico deve attivarsi: bisogna incontrare la famiglia del bullo, la famiglia della vittima, e obbligarli a fare un percorso.Se la scuola non interviene entro quel limite di tempo devono essere previste delle sanzioni. Buona parte del bullismo si alimenta perché nessuno interviene, senza contare che la vittima nel 30 per cento dei casi diventa a sua volta bullo».
Come rendere i bulli consapevoli delle loro azioni?
«Sempre per un discorso neuro cognitivo, i ragazzi capiscono se fanno esperienze reali, quindi attraverso l’educazione al rispetto, bisogna fargli sperimentare le conseguenze dei loro comportamenti. L’educazione al rispetto pare sia stata inclusa nelle 36 ore di educazione civica ed è previsto che le faccia l'insegnante, che a questo punto dev’essere un tuttologo».
Attraverso l’esperienza della sua Associazione, i ragazzi come immaginano il loro futuro?
«Più della metà dei giovani tra i 9 e i 21 anni è incapace di immaginare il futuro, ovvero non riesce a desiderare. Se manca il desiderio, vuol dire che manca il motore della vita».
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Quella sporca moneta - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 28 novembre, è disponibile in edicola e in app



