Chi è davvero Francesco Amato, l'imputato del maxiprocesso alla 'ndrangheta emiliana condannato a 19 anni per mafia? Chi è l'uomo che per protestare contro la sentenza è rimasto asserragliato per otto ore con cinque ostaggi nel piccolo ufficio postale di Pieve di Modolena, in provincia di Reggio Emilia?
Amato si era reso irreperibile subito dopo il verdetto dei giudici di Reggio Emilia. Per la corte è un uomo della mafia calabro-emiliana. Lui, però, si ritiene estraneo al sistema. E per urlare al mondo la sua innocenza ha pensato bene di ricomparire vestendo i panni di un bandito sequestratore armato di coltello alle poste del piccolo paese del Reggiano.
Una sentenza ingiusta, sostiene Amato. «Ho commesso decine di furti, ho imputazione per porto abusivo di arma, non ho mai avuto a che fare con la droga perché lì duri un paio di anni poi ti prendono» era stata la testimonianza di Amato durante il processo.«Non ho avuto contatti con nessuna delle altre persone qua al processo. Come fanno a dire i pm che da quando c’è stato l’arresto, nel 2015, fino al 2018, io ho continuato a delinquere con la ’ndrangheta in questo periodo?».
Questa è la sua difesa. Le cose, in realtà, stanno diversamente. E benché abbia mostrato tutta la sua incredulità davanti ai giudici per il fatto di non essere stato mai stato arrestato per mafia in Calabria e adesso invece lo accusano di mafia a Reggio Emilia, Amato l'ambiente della 'ndrangheta lo conosce molto bene.
E, dunque, per spiegare quanto sia parte di quel sistema è necessario tornare indietro nel tempo. A un'indagine coordinata dalla stessa pm, Beatrice Ronchi, che prima di finire a Bologna e seguire il processo Aemilia, ha lavorato nell'antimafia di Reggio Calabria. Torniamo, dunque, 21 giugno 2009. Quando gli investigatori intercettano un dialogo tra il mammasantissima Carmelo Bellocco e alcuni affiliati di peso dell'omonomo clan.
I Bellocco sono i sovrani incontrastati di Rosarno, il paese della piana di Gioia Tauro noto per la forte presenza di braccianti africani e dove la Lega ha raccolto il 13 per cento di consensi alle ultime elezioni. Qui comandano due famiglie, i Bellocco e i Pesce. Attorno a loro un manipolo di famiglie satellite.
Dicevamo della riunione in casa del boss Bellocco. In quel summit registrato dalle cimici dei detective nella casa bolognese del boss emerge una storia inquietante. Si scopre che il padrino di Rosarno- che al tempo lavorava al mercato ortofrutticolo di Bologna nell'azienda di un suo imprenditore- è preoccupato da un soggetto che lo seguiva da giorni. Il tizio si chiamava Ciccio. Un viso conosciuto, dice il capo mafia. Dopo un pedinamento non troppo nascosto, Ciccio lo avvicina all'interno del Ortomercato. Solo allora Carmelo Bellocco riconosce il suo pedinatore in Francesco Amato. Proprio lui, «lo Zingaro» come lo chiamavano a Rosarno.
E cosa volesse Amato dal super boss, è proprio quest'ultimo a spiegarlo ai sodali: Pretendeva spiegazioni riguardo un omicidio di un parente avvenuto anni prima, la cui responsabilità erano dei Bellocco, almeno secondo Amato. Alla richiesta di Amato, Bellocco, però,ha risposto seccato: «Ma perché sei venuto da me?». La risposta di Amato "lo Zingaro" è degna del film il Padrino: «Sono venuto da te perché tu sei il responsabile...e io voglio quella cosa altrimenti uno al giorno, finché non mi ammazzate, ne ammazzo uno al giorno, uno al giorno, dovete saperlo».
Insomma, Amato promette vendetta, chiede a Bellocco la vita di un loro affiliato come «riparazione» dell'omicidio del parente. Analizzato il comportamento dello ”Zingaro”, i Bellocco proseguono la riunione perché non credono che Amato possa aver fatto tutto da solo. Chi c'è dietro di lui, dietro quelle minacce e quell'affronto? Arrivano alla conclusione che solo una famiglia potente come i Pesce può nascondersi dietro quel gesto. I Pesce sono l'altra storica formazione criminale di Rosarno.
«Le minacce di Amato-ragionano gli uomini del clan Bellocco- somno gravi e concrete, tali da richeidere immediate contromisure, cioè un azione preventiva nei suoi confronti». Loro, del resto, sono talmente potenti da poterne «intapparne(uccidere) fino a cento al giorno». E a quel punto seguono proposte: «Lo carichiamo in macchina e tanto non ci vede nessuno». La spedizione di Amato, quindi, innesca la miccia, la faida è pronta a esplodere. Amato non subirà alcuna conseguenza. Anche se delle intercettazioni emerge la sua preoccupazione e dei parenti, alcuni dei quali residenti a Rosarno.
Il 15 luglio, venti giorni dopo la minaccia rivolta al boss, succede però qualcosa di concreto. Un duplice omicidio a Scilla, in Calabria. Tra le vittime il quindicenne Francesco Amato, parente e omonimo dell'Amato che si era presentato al cospetto di Bellocco per regolare i conti. C'è un collegamento? A questa domanda nessuno ha ancora risposto. C'è però impressa sui nastri della procura la preoccupazione e il sospetto di Francesco Amato che, convinto di sapere chi sia il mandante dell'omicidio, decide di mettersi in macchina e andare a Rosarno: «Passo da quell'altro porco gli dico quello che gli devo dire e me ne salgo». Per i pm è chiaro, sta parlando dei Bellocco: «appare fin troppo evidente che non intenda esattamente parlare con i soggetti ritenuti responsabili dell'omicidio, ma attuarre una immediata ritorsione contro quei “cani di merda”».
Non accadrà nulla, per fortuna. Ma il delitto del giovane Amato porta a un'accelerazione delle indagini sui Bellocco. Così la procura antimafia di Reggio Calabria per timori di scontri a fuoco chiede l'arresto per un nutrito gruppo di affiliati al clan Bellocco. L'operazione avrà un nome evocativo: “Vento del Nord”. Amato non sarà indagato, salvo poi finire molti anni dopo nel maxi processo Aemilia, conclusosi in primo grado la settimana scorsa con condanne notevoli per oltre 140 imputati. Tra questi c'è proprio Francesco Amato, sconosciuto delinquente di provincia come vuol fare credere lui, in realtà 'ndranghetista pronto a tutto. Pronto persino ad affrontare una famiglia di 'ndrangheta del calibro dei Bellocco.