Hanno tra i 15 e i 33 anni: negli Usa sono pronti a scalzare dalla scena politica ed economica i 'vecchi' che la occupano da quarant'anni. E in Italia? Hanno perso il bandolo del futuro. Schiacciati dalla crisi economica. E Intrappolati da genitori che hanno promesso ?il mondo, ma non hanno insegnato come  prenderselo

Hanno tra i 15 e i 33 anni , li chiamano Millennial, Echo Boomer ma anche Y, Next o Net Generation: tanti modi per definire una generazione il cui tallone d’Achille è il lavoro, che non c’è o non vogliono fare, fra stage sottopagati, tirocini in scienze delle fotocopie, stipendi da fame, finte partite iva e gavette infinite.

Tutt’altra storia rispetto ai genitori o nonni, quei Baby Boomer, nati tra il ’46 e il ’64, traghettati senza patemi dalla rivoluzione alla carriera. Oggi hanno tra i 50 e i 70 anni e ancora non mollano i posti di comando, parcheggiando i figli nella sala d’attesa. Da Washington il prestigioso think-tank Pew Research Center racconta che i Millennial a stelle e strisce nel 2015 hanno numericamente superato i Baby Boomer, sono pieni di entusiasmo e pronti a spingere i loro vecchi fuori da una scena che occupano da quarant’anni.

In Italia invece i giovani sono il più delle volte bollati di indifferenza, disinteresse, avversione al lavoro, attaccati a un divano e a un iPad nell’assenza di valori e motivazioni. Michele Serra, nel libro dedicato al figlio, li definisce “Sdraiati” e ammette di non riuscire a comprenderli. Il filosofo Umberto Galimberti ne “I vizi capitali e i nuovi vizi” li descrive come accidiosi, debolezza cara a Flaubert che ci ha ricamato attorno l’antieroina Emma Bovary.
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Ma davvero sono così i Millennial italiani? Fra statistiche ballerine e mille studi contraddittori, ne esce un ritratto complesso: quello di una generazione che, sul fronte lavoro, un po’ c’è e un po’ ci fa. «Faccio autocritica: siamo viziati e pigri, anche se sappiamo che chi si sbatte può trovare lavoro e progettare un percorso: università, carriera, famiglia. Ma anche tra i miei amici più bravi, dai 23 ai 30 anni, nessuno ce la fa da solo. L’aiutino c’è sempre: per macchina, vacanze, affitto paga papà».

Lorenzo Camerini, 28 anni, vive nella costosa Milano. Dopo il classico si è iscritto a Scienze Politiche, la laurea è in dirittura d’arrivo: «In effetti me la sono presa con calma, ma mi son dato da fare». Fino a qualche tempo fa era dietro al bancone del bar Jamaica di Brera, anche se il sogno è lavorare nell’editoria, «ma ci vuole la raccomandazione giusta», dice lui. Dunque addio stampa. È andato all’estero per un po’, ma il primo posto di lavoro l’ha perso perché il padrone del pub voleva forzarlo a scaldare il prosciutto crudo nel microonde: «Mia nonna è marchigiana, non potevo farle un torto così».

Basta, come motivo per lasciare? A lui è bastato e si è messo in proprio. «Il bello dell’Inghilterra è che ti viene un’idea e il giorno dopo sei in pista, mica come in Italia». Mette su un catering di cibo italiano. Ma Londra non è il paradiso: disumana, competitiva, così la racconta Lorenzo. Torna in Italia, oggi fa l’assistente in uno studio fotografico. Per ora in stage. In futuro chissà.

Lorenzo è uno dei tanti ragazzi italiani un po’ velleitari, un po’ scansafatiche descritti dalle statistiche, accusati di non voler accettare lavori sempre troppo faticosi. Di sicuro si confrontano con la concretissima grande recessione cominciata nel 2008, contro la quale la Generazione Y lotta senza armi. La crisi ha sterminato posti di lavoro, e prosciugato speranze di futuro professionale.
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L’Istat dice che il 40 per cento dei ragazzi non ha un’occupazione e 1 su 4 -2 milioni e mezzo di under 30- è arruolato tra le fila dei Neet (Not in Education, Employed or Training), insomma non studia né lavora. «L’Italia è la più grande fabbrica di Neet d’Europa», commenta Alessandro Rosina, professore di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, grande esperto del rapporto giovani-lavoro. «Il nostro è uno dei paesi avanzati che meno ha investito in politiche attive per il lavoro, ricerca sviluppo e innovazione rispetto al resto d’Europa.

Significa che chi ha un titolo di studio basso fa fatica a trovare un posto di lavoro, e chi ha studiato di più spesso deve accontentarsi di essere sotto inquadrato e sotto pagato. I giovani sono frustrati per il sottoutilizzo delle loro potenzialità, e sfiduciati nella politica. Tutto questo li rende sensibili e reattivi rispetto alle critiche», dice Rosina. Un esempio? Poche settimane fa Jovanotti ha spronato i ragazzi a fare esperienze anche a costo di lavorare gratis, per far parte di un progetto e mettersi alla prova. I giovani l’hanno massacrato: «Che vada lui a far volontariato, con quello che guadagna», ha risposto il popolo del web.

Il biasimo, per i Millennial, è sempre in agguato. Più volte Riccardo Illy, il patron dell’azienda di caffè, da vari quotidiani nazionali li ha criticati perché non avrebbero voglia di fare fatica, di svegliarsi presto per andare al lavoro. Colpa, per Illy, soprattutto di iperprotettivi genitori e nonni che invece dovrebbero insegnargli a mantenersi da soli. In passato era stata Elsa Fornero, da ministro del Lavoro del governo Monti, a definirli “choosy”, schizzinosi.

Recentemente è stata l’agenzia di selezione Manpower a farli infuriare, sostenendo che il 46 per cento dei mille candidati idonei per l’Expo aveva rifiutato il posto offerto: indisponibili a lavorare nei week end e a rinunciare alle vacanze. I ragazzi si sono scatenati di nuovo, lamentando paghe troppo basse che rendevano impossibile, per chi veniva da fuori, mantenersi a Milano, selezioni poco serie e tempi di decisione strettissimi. «La verità? Nel mezzo», interviene Alberto Caccia, 27 anni, laurea in Matematica, emigrato dall’Abruzzo negli States in cerca di un futuro migliore. «In Italia ho lavorato in una grossa società di Milano che fa algoritmi matematici di cifratura, in pratica codici di sicurezza dell’home banking. All’inizio ero in stage non pagato e mi appoggiavo a zii di Pavia. Tre ore per il viaggio, mi svegliavo alle 6. Col primo contratto mi sono permesso una stanza a Milano. Ma se io facevo sacrifici, i miei amici si lamentavano e basta». Però anche Alberto se n’è andato. Ora lavora in Silicon Valley, a San Jose, centro ricerche Ibm, «Perché l’Italia è un paese che non sa valorizzare i giovani, neppure quelli in gamba».

L’intero contesto italiano li respinge. Gessica Carelli che ha da poco superato i trent’anni. Laurea in Marketing, fino a poco tempo fa viveva nel comasco: «In una agenzia di selezione del personale seguivo selezione, amministrazione e commerciale per soli mille euro al mese e nessuna prospettiva di carriera. Ogni mese potevo essere licenziata. Una volta, in ritardo con la rata del mutuo, in banca mi hanno spiegato che, se mi fossi ritrovata senza lavoro, avrei potuto bloccare il debito per un anno. L’ho fatto. Ho messo in stand-by la mia vita lavorativa e ora vado in Nepal per dare una mano a ricostruire Kathmandu».

Gessica in in 5 anni di selezione del personale si è fatta un’idea precisa sui giovani. «Tendenzialmente non vogliono fare sacrifici, non hanno capito che oggi è indispensabile saper fare e sapersi vendere. Ai colloqui c’era chi si lamentava perché il posto di lavoro era troppo lontano da casa, chi si presentava con la madre, chi non si era neppure informato sul tipo di mestiere ma voleva solo sapere quanto avrebbe guadagnato, chi arrivava in ritardo, chi rifiutava per principio turni perché troppo faticoso, chi rinunciava perché il lavoro cominciava a luglio e avrebbe compromesso le ferie», ricorda.

Roberto Galantuomo, 29 anni di Monte Romano (Viterbo), ha avuto esperienze simili. Ha preso in gestione la pizzeria dello zio e lavora tutto il giorno, la sera organizza eventi nelle discoteche: «Doppio turno, niente domenica né festivo. Ho faticato a trovare un aiutante al ristorante: nessuno voleva lavorare a Ferragosto. Molti si tirano indietro al primo ostacolo».

Allora è questo il ritratto dei Millennial? «Non sono né parassiti né indolenti, ma molto diversi dal mondo degli adulti», spiega Giovanni Siri, professore di Psicologia all’Università San Raffaele di Milano. Per lui soffrono di una sorta di “Sindrome della Principessa”. «Le famiglie hanno investito parecchio su questi ragazzi, li crescono con grandi aspettative. Caricati come molle, si credono “principesse” cui tutto sarà concesso e poi vanno a sbattere contro un mondo del lavoro diverso da quello che si aspettavano: stage sottopagati e pochissime prospettive. Scoprono che lavorare significa sacrificio, compromesso, ma nessuno glielo aveva spiegato. All’estero non succede: specialmente in Nord Europa e Usa c’è sensibilità verso il divario generazionale e si fanno corsi di formazione per imprenditori e responsabili del personale. L’idea è rendere i Millennial produttivi nelle aziende», prosegue Siri, secondo cui il modello è quello dell’azienda aperta e flessibile, stile Apple, perché per i giovani il lavoro non è semplice mezzo di guadagno, ma obiettivo di vita, piacere.

L’ideale sarebbe un’occupazione stimolante, in un luogo di condivisione. «Il modello culturale è quello dei telefilm di successo, come Grey’s Anatomy o Csi, dove gruppi di amici lavorano e fanno una vita interessante. Per l’Expo di Milano si sono trovati molti volontari perché l’obiettivo principale dei giovani non è far soldi ma sentirsi utili, dare significato alla vita. Lo fanno anche quando cercano opportunità nel servizio civile». Paolo Cappelli, 27 anni di Poggibonsi (Siena), fa il volontario e vorrebbe lavorare nel sociale. In tasca ha una laurea magistrale in Studi Geografici Antropologici all’Università di Firenze e lo sbocco concreto in Italia sarebbe entrare all’Istituto Geografico Militare di Firenze, ma lì bisogna indossare la divisa: «Sono contrario, quindi devo trovare un’altra strada. Ho fatto lavoretti stagionali, ora il volontario per la Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, onlus che porta aiuto a bisognosi. Spero diventi un lavoro», dice Paolo, che sta anche studiando il cinese e spera in un futuro stabile. «Tutto sommato sono fiducioso. In Italia non è impossibile trovare lavoro ma bisogna impegnarsi e non tutti hanno voglia di fare sacrifici. Ho amici che per principio non accettano di lavorare il sabato e si lamentano in continuazione». Paolo invece è stato tra i primi ad aderire al progetto del ministero del Lavoro Garanzia Giovani (garanziagiovani.gov.it) che, partito mesi fa, punta ad aiutare i ragazzi con meno di 29 anni a trovare impiego. 600mila ragazzi si sono iscritti, solo 70 mila hanno ricevuto una risposta, spesso un tirocinio o un percorso formativo. «Specie al Sud le selezioni sono in ritardo, le agenzie pubbliche o private devono darsi una mossa», spiega Romano Benini, consulente del ministero del Lavoro e promotore del sistema Garanzia Giovani. I ragazzi scendono dal divano per migliorare il loro futuro, spiega Benini, ma meno del 10 per cento è disposto ad accettare un’offerta lontano da casa. Per molti l’indipendenza da mamma e papà non è un valore.

Di tutt’altra pasta i ragazzi che se ne vanno all’estero -trentamila l’anno quelli con una laurea in tasca- in cerca di alternative alla stagnante Italia. «I più dinamici fuggono. Chi resta, fatica a spostarsi anche di pochi chilometri: perché le offerte lavorative sono pagate poco, e perché non si mettono in gioco. Inoltre il 40 per cento è disorientato, non conosce neppure l’esistenza dei servizi per l’impiego provinciali. La debolezza dell’inserimento al lavoro è un forte alibi per i Neet», commenta Benini. Eppure, grazie al Jobs Act che ha creato 133 mila posti di lavoro in più ad aprile, qualcosa sta cambiando: «Per ogni persona che trova una nuova occupazione due si mettono in cerca. Paradossalmente, l’aumento dei giovani disoccupati è un buon segnale: significa che gli inattivi ricominciano a darsi da fare, recuperano fiducia, tornano a spulciare le offerte, si iscrivono alle liste di collocamento gonfiando il numero dei disoccupati e smagrendo quello degli inoccupati».

Eppure c’è ancora molta strada da fare se, come racconta il dossier “La Condizione giovanile in Italia” condotto su 9 mila ragazzi e pubblicato a marzo dall’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica di Milano, il 30 per cento dei Neet italiani non ha intenzione di mettersi all’opera e il 36 per cento delle ragazze non accetterebbe un lavoro per alcun motivo e a nessuna condizione. «La metà dei disoccupati e i tre quarti degli inattivi sono persone scoraggiate, che sanno di non avere la formazione giusta per essere selezionati dalle aziende. In Italia mancano percorsi di attivazione, che accompagnino questo “zoccolo duro” verso la condizione di occupabile. Il rischio è perdere questa generazione per strada», incalza Benini.
I giovani non sono però tutti scoraggiati allo stesso modo. Uno su 10 sarebbe pronto ad accettare qualsiasi lavoro, ma non lo cerca perché convinto che non ci siano sbocchi. Uno su 5 non è interessato alla questione. Il restante 60 per cento sarebbe disposto ad accettare un lavoro a certe condizioni: occupazione di prestigio, che dia reddito alto, non troppo distante da casa. Di questi tempi, si trova solo sull’Isola che non c’è.

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