I 70 anni de L'Espresso
7 ottobre, 2025Il pensiero s’è messo in marcia, e non si fermerà tanto presto, dice Fidel Castro a Sartre, allora ancora entusiasta. Uno straordinario reportage tra i contadini di Cuba che ripubblichiamo per lo Speciale 70 anni de L'Espresso
La prima volta che l’ho visto è stato a Holguin; una caserma tornava al popolo sotto forma di scuola; Castro inaugurava questa nuova abitudine. (...) Tutti ridevano soddisfatti, ciarlavano: aspettavano qualche cosa. Che cosa? Di vedere Castro, naturalmente, magari di toccarlo, come fanno molto spesso le donne, per rubargli un po’ del suo merito insolente, un po’ della sua felicità. (...) «Per di qua», indicò un soldato ribelle. Vidi uno stadio. Sui gradini, ai miei piedi, migliaia di ragazzini; sulla pista, giù in basso, decine di migliaia. E su quel mare di bambini, una zattera che sembrava alla deriva; la tribuna, se vogliamo: alcune tavole messe insieme, puntellate su piccoli pali, ancora ieri erano tronchi d’arbusti. Castro aveva voluto così, per parlare più da vicino possibile a quel giovane pubblico. (...)
Castro stava finendo il suo discorso. Era inquieto: altri due discorsi, prima della fine della giornata; l’ultimo era il più importante: doveva parlare ai rappresentanti dei sindacati operai, all’Avana, e chiedere che sacrificassero una parte del loro salario per i primi investimenti che avrebbero dato il via all’industrializzazione. (...) Volle compensare le sue troppo brevi parole restando più a lungo sulla tribuna. Mi accorsi allora che due bambini del pubblico, tra gli otto e i dieci anni, non di più, si erano aggrappati ai suoi stivali: la biondina allo stivale sinistro, il moretto a quello destro. (...)
Prese sotto le ascelle il granchiolino aggrappato allo stivale destro, lo sollevò da terra; ci accorgemmo allora che il ragazzino gridava senza interruzione. «Che vuoi?» domandò Castro. «Vieni da noi», gridò il bambino, «vieni al villaggio». «C’è qualcosa che non va?». Il bambino era magro, con due occhi lucidi e scavati, si capiva che i mali che aveva ereditato dall’antico regime sarebbero stati ancora meno facili a guarire di quelli del paese. Con convinzione rispose: «Va tutto bene, Fidel. Ma vieni da noi!». (...)
La mattina dopo, Castro venne a prendermi all’albergo: si faceva un giro dell’isola; un giro d’ispezione lungo le spiagge, e insieme, una gita turistica per me. La macchina si fermò e venne subito catturata dai contadini. Tutti gli sportelli s’aprirono: i cappelli di paglia e le teste brune si chinarono su Castro. Lungo chiacchiericcio: la cooperativa chiedeva una visita di Castro e Fidel pretendeva di continuare il viaggio. Alla fine, gli spiegarono che la cooperativa si vantava con orgoglio d’essere in anticipo sul piano dei tempi: non aveva ancora ricevuto il progetto dell’INRA e, da oltre un mese, tutte le domeniche, con l’aiuto degli operai della città, s’era messa a costruire un villaggio che sarebbe stato terminato entro un mese. «Vieni, Fidel, vieni! Vieni a vedere i lavori!». D’un tratto, vidi Castro in piedi, fuori dall’automobile: aveva la fronte aggrottata e pareva più incredulo che ammirato. Attraversò a gran passi la strada, spinse il cancello dello steccato, entrammo tutti dietro a lui; i coltivatori, lunghe sagome sottili, mi circondarono, lo perdetti di vista. D’improvviso, lo sentii gridare con voce desolata e piena di rimprovero: «Dov’è il villaggio? Dov’è il villaggio?». Sconcertati, i contadini si tirarono da una parte. Tutti lo guardavano, non aveva occhi che per le esili bicocche di cemento armato, grigie sotto lo scintillio della lamiera ondulata che si susseguivano lungo una strada di polvere. Castro si voltò verso di loro, pareva afflitto. «Guardatele!» esclamò, indicando le case grigie, «su, guardatele: ma, disgraziati, siete voi che andrete ad abitarci». «Allora», disse un giovanotto offeso, «abbiamo fatto male a voler cominciare prima? Sei tu che ci hai chiesto di guadagnar tempo e tu…». «Non avete fatto male» disse Castro. Ebbe un’esitazione. «Datemi un bastone». Gli portarono un ramo. Tentò di disegnare un piano nella polvere. Gettò via il ramo: «Datemi un pezzo di carta, un carboncino». Corsero via; gli portarono del cartone da imballaggio, un pezzo di carbone. Disse: «Bene. Dunque, ecco». D’un tratto, si gettò a terra, sul ventre; appoggiato sul gomito sinistro, parlava e intanto, con la mano destra, tracciava sul cartone, pesanti segni di carbone. Mi chinai insieme con gli altri: capii; non stava tracciando il piano dell’INRA; la cooperativa se n’era troppo discostata per poterlo riprendere senza mandare a monte tutto quello che già era stato fatto: Fidel tentava, con la passione che avevo sempre visto in lui, di adattare il piano alle circostanze, di dare a quei contadini un modello abitabile che fosse il più possibile vicino all’attuale disordine. Alla fine, alzò la testa e tese loro il suo schizzo: «Avete capito?».Li guardai incuriosito: come avrebbero accettato quel lavoro supplementare? I loro occhi brillavano: e pensai che avevano capito più in fretta e meglio di me. Castro gli aveva chiarito il senso della costruzione circolare; e poi, soprattutto, anziché rimandarli al progetto dell’INRA, aveva inventato una soluzione intermedia, valida per quel solo villaggio, che tenesse conto degli sforzi già compiuti. Avevano perduto del tempo ma, in compenso, si sentivano oggetto di una sollecitudine particolare: in una parola, sentivano d’essere amati da quel colosso sdraiato nella polvere.
Nel pomeriggio, abbandonammo la costa: fu allora che scoprii i rapporti umani che correvano tra il capo e gli agricoltori, nell’asprezza delle reciproche rivendicazioni. Castro fece un segno, l’automobile lasciò la strada e procedette sui campi. (...)
Ci fermammo davanti a un gruppo di sette o otto coltivatori. Alle loro spalle, una macchina agricola; alla loro destra, l’automobile della cooperativa. Ci avevano visti arrivare e nemmeno per un istante avevano dubitato che non fosse Castro. La presa fu immediata: cominciò con lo scambio dei saluti. Ma, stranamente, ne sottolineò la cordialità: quella gente ancora non si conosceva, le loro mani non s’erano mai toccate, ma quelle formalità potevano venir ridotte al minimo perché appartenevano tutti a una medesima famiglia, con gli stessi interessi, le stesse necessità. Castro salutò, serio; i contadini dissero: «Buongiorno, Fidel». E subito diede inizio alle sue domande: «Quanto? Quanto? Perché non fate di più? Perché non andate più in fretta?».
Le risposte non si fecero aspettare: perché la distribuzione dei compiti era stata mal fatta, perché i lavori difficili erano affidati a persone incompetenti. Il più anziano, un ottantenne dal colorito bruno, con le tempie che s’imbiancavano, chiamò gli altri a testimoni: sapeva guidare e riparare i trattori meglio di chiunque altro: l’aveva detto e dimostrato al responsabile il quale manteneva, per ostinazione, a quel posto di fiducia, un incapace. «Datemi un trattore», disse rivolto a Fidel, «e ti faccio vedere subito quello che so fare».
In simili casi, Castro si sente preso tra due fuochi: nel gusto che gli è proprio per i rapporti immediati, nella ribellione contro tutte le forme della gerarchia, egli trova motivi imperiosi per risolvere tutto immediatamente e ottimamente; lo immagino che dice: va’ a prendere il trattore. Ma la gerarchia che egli così facendo spezzerebbe, è quella dell’INRA, che egli stesso ha istituito e di cui, nell’insieme, è molto soddisfatto. Egli sa d’essere, stranamente, un fattore costante di disordine: in realtà, poiché gira per l’isola, poiché lo s’incontra dovunque, i gruppi di lavoro, quali che siano, trovano naturale pretendere che egli risolva personalmente i loro problemi: perché dovrebbero accontentarsi della prima o della seconda istanza se hanno sottomano l’istanza suprema? Vedevo anche, però, che non sarebbero riusciti a fargli sconfessare dei responsabili che, d’altra parte, egli non conosceva. «Rivolgetevi ai vostri diretti superiori!». Subito un giovane protestò: «Sono loro che commettono gli sbagli: non possiamo contare su loro perché li riconoscano». «Andate con loro dal capo della regione», rispose Castro, paziente. (...)
Nuovo villaggio, nuova cooperativa. Questi non chiedevano nulla: guardavano, applaudivano. Sì, invece: si tirarono di lato, e spinsero in prima fila, contro lo sportello della macchina, un prete avvolto in una lunga tonaca bianca, molto intimidito: «Su», dissero le voci, «parlategli, è l’occasione buona, non fatevela scappare…». Il prete chiamava Castro, per nome, Fidel, come gli altri, parlava molto in fretta: doveva esporre l’idea dominante della sua vita e aveva i minuti contati; possedeva una vera testa contadina, somigliava ai suoi fedeli. Ma la sua voce affabile e logora pareva fosse il segno d’una vera cultura: da vent’anni, disse, esplorava quella regione, insieme con dei geologi e degli esperti tedeschi di cui citò il nome e che, pare, facciano testo in materia: aveva la certezza assoluta che il sottosuolo contenesse importanti giacimenti di petrolio, li si sarebbe potuti sfruttare fin da quel momento; tanto che aveva messo a punto, per l’estrazione, nuovi apparecchi e nuove tecniche, meno costosi e più adatti alla configurazione del terreno.
Ho tenuto a mente i termini precisi della sua perorazione: «Fidel, sono sicuro di quello che dico: se mi credi, dammi un milione. Se, di qui a due anni, non avrò fatto guadagnare il doppio a Cuba, fammi fucilare!». Castro sorrise, non s’impegna mai, a quel che ho potuto vedere, ma Celia prende appunti. I sette contadini scorsero per un momento dalla loro macchina, vollero riprendere la discussione interrotta. ma il villaggio, estraneo, s’interessava più al suo prete che alle loro disavventure; desistettero, credo, non sentendosi appoggiati. Quando ce ne andammo, tornarono al loro villaggio, ma devo notare qui un fatto che mi ha colpito: Castro non gli ha mai proibito, una sola volta, di seguirlo. Del resto, questo alleggerimento della nostra scorta si avvertì appena: il crudele camionista aveva messo in allarme tutto il paese.
Lasciando il curato del villaggio, domandai a Castro: «Che ne pensa di quel che ha detto?». «Il petrolio?» mi rispose. «E perché no? È già parecchio che in seguito a serie ricerche sono stati segnalati nel paese dei giacimenti di metano». Stava per continuare, quando ci fermarono. Questa volta, era un solo negro, gigantesco e furibondo: uscì da dietro un muro, mentre attraversavamo una piccola cittadina con le case basse, e si gettò su di noi. Col palmo aperto della mano sferrava colpi violenti nella cappotta dell’auto. «Imprudente!» disse incollerito a Fidel. «Proteggi la tua vita, è nostra, non è tua! Che ci fai di tanto importante seduto sui sedili anteriori di questa macchina? Sai benissimo che ti possono sparare addosso, che potresti tamponare contro un camion. E noi che faremmo? In un bel pasticcio ci troveremmo. Vai a metterti dietro con Celia e fammi il piacere di mandare davanti tutta questa gente spaparanzata in fondo all’auto». «Sono i miei ospiti», rispose Fidel con un sorriso. Il negro alzò le spalle: «E con questo? Portali a spasso quanto ti pare, ma se c’è da morire, che muoiano loro».
Alcuni ragazzini correvano gridando verso di noi: se ne accorse e, con molta eleganza, si scostò: «Va’ via», disse, «hai fretta: non voglio essere io a farti perdere tempo». Fidel gli rivolse un largo sorriso, il negro gli restituì il sorriso minacciandolo con un dito; l’automobile partì verso nuove avventure, colpi di forza, conciliaboli, amicizie. Venti volte mezzo soffocati, venti volte disimpegnati per miracolo, scorgemmo con inquietudine, con Simone de Beauvoir, il sole scendere, pomodoro sanguinante, sulle giovani pianticelle di pomodori. «Ma» dissi ad Arcocha, «non rientriamo stasera?». «Torniamo a Varadero», mi rispose, «e dormiremo là». «Ma avevo fissato degli appuntamenti per domani mattina». Scrollò le spalle: «Bè», replicò, filosoficamente, «quando sapranno che siete con Fidel…». Ottenni comunque che telefonasse per avvertire le persone che avremmo dovuto vedere.
La macchina si fermò dieci volte ancora: era un autobus. Raccogliemmo una vecchia contadina che aspettava la corriera e la depositammo nel suo pueblo: né Castro né i suoi ministri si proibiscono l’autostop. Conservavo tante immagini, nella memoria; si sarebbero confuse, era un peccato. Dissi ad Arcocha: «Dimenticherò queste facce, si mescoleranno tutte; me ne dispiace: ognuno di quei contadini aveva una personalità così forte! E poi, sono degli individualisti. Ciascuno spera che Castro, un giorno, gli capiti davanti, e nell’attesa riflettono, ciascuno secondo il proprio carattere, mettono a punto un’invenzione o una critica, ma è sempre lo stesso pensiero, ci tornano su tutti i giorni, dappertutto ho avuto la sensazione che uscissero bruscamente dalla loro idea fissa e che la esponessero rapidamente; mai però mi hanno dato l’impressione che improvvisassero.» «Ditelo a Castro, questo», mi disse Arcocha. «Ebbene», feci, «traduceteglielo». Così fece.
Castro mi sorrise: il ghiaccio era rotto. Parlammo dei contadini: anche secondo lui erano i più grandi individualisti. Ciò che lo appassionava, nelle cooperative, era la tensione che vi s’era stabilita tra la volontà comune e la libera personalità di ciascuno: «Quando i responsabili sono buoni elementi, i lavoratori hanno tutti la passione di lavorare in comune: è interesse loro, e lo sentono. Ma quello che mi piace, in loro, è il fatto che restino sempre, ovunque, delle persone singolari». «Me ne sono accorto», risposi; «nonostante i cappelli rotondi, la camicia cubana e, talvolta, il machete, nessuno somiglia a nessun altro. Sanno leggere?». «Quelli che abbiamo visto? Per la maggior parte, suppongo di no». «Allora», continuai, «come si spiega che quegli analfabeti mi hanno dato l’impressione di gente colta?». «È perché riflettono», rispose. «Sempre. La Rivoluzione ha rappresentato la molla, lo scatto, in ciascuno di loro il pensiero s’è messo in marcia, e non si fermerà tanto presto».
Avevamo ritrovato la costa, una buona strada, il mare era violaceo, il sole tramontava. «Quante esigenze!», dissi a Castro. Rispose: «Dove volete che riversino la loro libertà? Esigono tutto, da noi: è la nostra disgrazia. Da quando abbiamo sbaragliato i mercenari, credono che possiamo tutto». Riaccese il sigaro e continuò, con una leggera tristezza: «Si sbagliano, è molto più facile per cento uomini coraggiosi polverizzare cinquantamila cattivi soldati che per sei milioni di lavoratori impegnati raddoppiare, nel giro di un anno, la produzione. Vedete, la nostra esistenza e il nostro successo gli hanno dato questo diritto imprescrittibile: pretendere; e siamo noi che dobbiamo dire, giustamente: non ancora, non quest’anno».
Passammo tra due campi di canna, in un borgo: spuntò un uomo, le braccia alzate: non tentò di fermare la macchina, gridò soltanto: «Una fabbrica, Fidel, una fabbrica!» e ci lasciò passare. «Tre anni fa», osservò Fidel, «avrebbe chiesto un posto in amministrazione. Vedete il progresso: vuole che tutti i lavoratori della canna possano essere immessi, durante gli otto mesi di disoccupazione, nell’industria. Purtroppo, questo non avverrà domani. Tuttavia anche se occorre aspettare l’industrializzazione, egli conserverà ancora questa coscienza rivoluzionaria?». Tacque, e si voltò verso il parabrezza. Questa volta lo
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