Negli anni Sessanta divenne sempre più urgente parlare di controllo delle nascite e aborto, nel mondo e in Italia, nonostante l’arretratezza delle leggi sul tema

L’ipocrisia del codice Rocco, che sulla contraccezione era più rigido della Chiesa di Paolo VI

Nell’aprile 1966 l’Italia era ancora molto lontana dalla legge sull’aborto, la 194 del 1978, ma era ugualmente lontana dalla riforma del diritto penale sulla contraccezione. Era infatti ancora in vigore l’articolo 553 del codice Rocco, il codice penale fascista, che dal ventennio fino al 10 marzo 1971 considerava la contraccezione al pari dell’interruzione di gravidanza, come un reato contro la persona e un diritto contro l’ordine della famiglia (e contro il «rigoglioso sviluppo del popolo»). Da questo punto di vista, sottolineava L’Espresso nell’impressionante copertina del 17 aprile 1966 - con il dettaglio di un feto nell’utero - persino la chiesa di Paolo VI si era mostrata più aperta, attraverso l’istituzione della “Pontificia Commissione per il controllo della popolazione e delle nascite”, attraverso cui il pontefice stabiliva la liceità del controllo dei periodi di fertilità delle coppie sposate (come scrisse nell’enciclica “Humanae vitae” del 1968). Il ritardo legislativo italiano, si leggeva sempre in prima pagina, provocava ogni anno ottocentomila aborti clandestini in Italia. Da qui per il giornale nasceva la necessità di un’analisi ampia del fenomeno, in grado di contenere anche le ragioni politiche, sociali ed economiche della necessità del controllo delle nascite, al di là dei pregiudizi e delle questioni morali. Iniziava così - con un forte titolo di copertina come “La morte prima di nascere” - una lunga serie di inchieste de L’Espresso, diventate poi sempre più militanti. Si ricorda a tal proposito, per esempio, anche la copertina dell’aborto-tragedia italiana, con una donna incinta, nuda e crocifissa, nel 1975.

 

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