Aumentano gli studi che dimostrano come, oltre a colesterolo e ipertensione, esistano nuovi indicatori che segnalano il rischio infarto

E se non fosse tutta colpa dell'ipertensione, del colesterolo cattivo, del fumo, dello stress, del sovrappeso? Insomma, e se i tradizionali fattori di rischio per cuore e vasi non fossero sufficienti a dire chi davvero rischia un infarto? Molte delle nostre certezze si sgretolerebbero. Eppure si moltiplicano gli studi che mettono in evidenza come, accanto a quelli più acclamati, ci siano altri fattori di rischio per cuore e arterie: dal cattivo funzionamento di specifiche proteine che trasportano i grassi nel sangue fino all'aumento del numero dei battiti, passando per marcatori dell'infiammazione come l'adiponectina e la proteina C reattiva.

A mettere in dubbio il dogma dei cardiologi, ovvero il reale valore predittivo del colesterolo, è una ricerca condotta su oltre 27 mila persone, apparsa su 'Lancet'. Lo studio, coordinato da Matthew MacQueen, docente di Patologia e Medicina molecolare dell'Università McMaster in Canada, ha dimostrato che il rapporto tra colesterolo cattivo e buono, cioè tra Ldl e Hdl, consente di definire solo il 37 per cento del reale rischio cardiovascolare del soggetto.

La proporzione tra i due tipi di colesterolo è utilizzata proprio per comprendere se elevati valori di Hdl, la molecola che trasporta il colesterolo fuori dai vasi sanguigni, possono compensare un innalzamento del colesterolo totale. Secondo 'Lancet' non sarebbe così importante: per calcolare l'effettivo rischio cardiovascolare sarebbe molto meglio utilizzare, invece, il rapporto tra la lipoproteina ApoB e la lipoproteina ApoA1. Secondo lo studio di MacQueen, la proporzione tra le due sostanze sarebbe in grado di definire il rischio di infarto in misura ben superiore ai parametri classicamente adottati: "C'è un rapporto stretto tra colesterolo e lipoproteine", spiega MacQueen.

Ancora nell'ambito dei lipidi, sempre nuove ricerche mettono sotto la lente d'ingrandimento anche i valori dei trigliceridi nel sangue come possibile fattore di rischio cardiovascolare. All'ultimo congresso dell'Esc (Società europea di cardiologia) uno studio del dipartimento di sanità pubblica finlandese su 22 mila persone, seguite per più di otto anni, ha dimostrato chiaramente come alti livelli dei trigliceridi nel sangue appaiano significativamente correlati con un più elevato rischio di infarto, indipendentemente dalla presenza di altri fattori di rischio cardiovascolare classici.

L'eccesso di trigliceridi è spesso associato a un ridotto valore di Hdl, soprattutto nelle persone in sovrappeso che a tavola fanno il pieno di calorie. "Per correggere questi nuovi fattori di rischio è fondamentale una dieta dimagrante con regolare attività fisica", commenta Paolo Bellotti, responsabile della divisione di Cardiologia dell'Ospedale San Paolo di Savona: "Spesso i valori dei trigliceridi tornano alla normalità solo con queste due misure: inoltre l'attività fisica può contribuire a innalzare anche i livelli di colesterolo Hdl nel sangue". La ricetta dei cardiologi non cambia: poco cibo e movimento. Crollano le speranze di chi contava su terapie meno draconiane. Anche perché il regolare esercizio fisico è davvero il viatico per un cuore sano. È infatti la contromisura più efficace per tenere sotto controllo un altro fattore di rischio non classico: l'aumento della frequenza cardiaca. Parametro molto importante per chi è già cardiopatico, ma che potrebbe assumere un valore anche per i soggetti a rischio.

Come dimostra lo studio 'Beautiful', condotto su oltre 11 mila soggetti con scompenso cardiaco in fase iniziale, pubblicato su 'Lancet': "Tenere la frequenza sotto i 70 battiti al minuto riduce del 36 per cento il rischio di infarto e del 30 per cento quello di un intervento alle coronarie", spiega Roberto Ferrari, direttore della Clinica cardiologica dell'Università di Ferrara e presidente della Società europea di cardiologi: "È fondamentale che il medico ricordi di sentire il polso a chiunque arriva in ambulatorio. È un esame privo di costi, non invasivo, che migliora il rapporto con il paziente e fornisce indicazioni importantissime: più bassa è la frequenza, più basso è il rischio di malattie cardiovascolari, e viceversa".

Il rapporto tra numero elevato di battiti e rischio è direttamente legato al consumo di energia necessaria per il muscolo. Ogni giorno il cuore batte circa 100 mila volte e necessita di circa 30 chili di energia. Quando le coronarie sono malate arriva meno ossigeno al muscolo cardiaco, che produce quindi minor energia e si deteriora, provocando angina, infarto, scompenso. Ridurre la frequenza cardiaca di dieci battiti al minuto significa far scendere di ben cinque chili le necessità energetiche del cuore. Ciò si ottiene soprattutto con un regolare esercizio aerobico.

Tra i fattori di rischio cardiovascolare che fino a oggi sono stati sottovalutati, un posto d'onore spetta ad alcuni parametri di infiammazione il cui incremento è sempre più spesso correlato a un aumento del potenziale rischio di infarto. Tra i parametri più studiati dalla comunità scientifica ci sono l'adiponectina e la proteina C-reattiva. La prima è una proteina prodotta dalle cellule adipose, la cui sintesi cala drasticamente nei soggetti diabetici obesi. Diverse ricerche hanno dimostrato come bassi livelli di adiponectina si associano all'incremento dell'indice di massa corporea, e ad un aumento del rischio cardiovascolare, con aumento di incidenza di infarto. La correlazione tra incremento dei livelli di proteina C-reattiva e maggiori pericoli per il cuore è stata dimostrata in diverse ricerche, tanto che il Centro per il controllo delle malattie (Cdc) di Atlanta e l'American Heart Association hanno prodotto le prime linee guida per l'utilizzo di questo parametro quale fattore di rischio in aggiunta a quelli classici.

Molti sono però i dubbi sulla reale applicabilità di questi elementi nella pratica clinica di ogni giorno, così come parecchie perplessità rimangono ancora sul reale utilizzo dell'aumento dell'omocisteina nel sangue. È vero che un eccesso di questa sostanza è associato con la malattia coronarica, ma non si sa ancora se i tentativi di abbassare l'omocisteina con acido folico, associato o meno a vitamine del gruppo B, corrisponda a un effettivo calo della possibilità di andare incontro a un evento cardiovascolare. Sembrerebbe, insomma, che i cardiologi non siano ancora in grado di gestire molti dei nuovi fattori di rischio cardiovascolare proposti.

Invece, anche il nuovo studio Interheart dimostra che i nove fattori di rischio classici identificano correttamente il 90 per cento dei soggetti che sviluppano effettivamente un episodio cardiovascolare. Sottolinea Bellotti: "Solo uno su dieci che andrà incontro a un infarto non presenta questi elementi: è in questa popolazione, tradizionalmente considerata a basso rischio, che la valutazione di parametri diversi può rivelarsi utile per definire meglio il livello di pericolo effettivo". Il 10 per cento: un'enormità, se si pensa che le malattie cardiovascolari uccidono quasi cinque milioni di persone l'anno nel mondo, e 250 mila solo in Italia. Un 10 per cento che diventa particolarmente rilevante quando si parla di persone che hanno già avuto esperienze di malattie cardiovascolari. Annota il presidente dell'Esc, Ferrari: "Nei pazienti cardiopatici occorre soprattutto una terapia personalizzata: un trattamento corretto regala anni di vita. In questo senso vanno utilizzate al meglio le informazioni che possono venire da test come il rapporto ApoB e ApoA1, non eseguibili in tutti i laboratori, e le informazioni che possono venire da test come la valutazione della Proteina C-reattiva, o il Bnp (Brain Natriuretic Peptide) che, quando è elevato in un paziente con scompenso cardiaco, è un indicatore di grande utilità. Questi dati possono aiutare a trattare al meglio specifici malati. Attenzione però a non esagerare con gli esami, se non sono strettamente indicati".