Da Vietri ad Amalfi. La scrittrice napoletana racconta i suoi luoghi dell'anima. Un itinerario della memoria. Tra i ricordi dell'infanzia e il disincanto di oggi
La costa d'Amalfi inizia da una delle peggiori autostrade del sud: la Napoli-Salerno. A un chilometro circa dallo svincolo di Vietri sul mare, l'autostrada si arrotola su se stessa, e dietro l'ultimo promontorio lascia comparire il mare: a sinistra forse gli occhi si spingerebbero, con le giuste condizioni di tempo, anche per tutto il Cilento, fino a punta Licosa, che mette l'orizzonte. Ma giù dal guardrail la cupola maiolicata gialla e blu, restaurata solo qualche anno fa, con i tetti delle case, che, come una spirale, l'attorniano degradando a mare, sono uno spettacolo troppo improvviso perché mi possa distrarre. Così mi accade sempre, da anni tanti, quanti non so, di iniziare a respirare dopo quella curva: se sono riuscita ad arrivare a Vietri, in fondo il peggio è passato. Così anche da ragazze, si lasciavano i compagni scioperanti fuori la scuola e si andava a prendere il 4, autobus arancione dalla linea disperata: Pompei-Salerno, e al primo comparire della spiaggia ci precipitavamo per le scale che da Vietri portano alla sua Marina. Oggi la spiaggia, con un intervento comunale, è diventata un tutt'uno di lidi municipalizzati, e pare di stare ad Alassio, se non fosse per lo sbucare, all'estrema sinistra, dei due fratelli: scogli gemelli raggiungibili a nuoto, che a fotografarli bluffando sulle proporzioni potrebbero essere i faraglioni di Capri. E per il vociare che si crea, qualche giorno l'anno, dell'arrivo di Nanni Moretti, anche lui al recupero della sua infanzia al lido California, sotto la roccia di fondo all'altra estremità della spiaggia. Le nostre andate a mare potevano anche spingersi oltre, dopo le turrite fabbriche di ceramiche, in autostop, verso marina d'Albori. L'autostop in costiera amalfitana è un modo sicuro di viaggiare: forma di cortesia, buon costume che pare venire da Cuba e supplisce le rare e affollatissime corriere che effettuano il servizio di linea. Al primo bivio la scelta è esistenziale, più che geografica: a salire sulla destra si arriva a Raito, paesino di poche anime con un'unica chiesa dalla facciata immensa rispetto ai vicoli che la circondano. Da qui la vista è mozzafiato, bene lo sapeva Benedetto Croce, l'aria è freschissima e molti alberghi pluristellati invitano a immergersi nelle jacuzzi tra i pini mediterranei. Che Raito fosse un luogo dove andarsi a rilassare l'ho scoperto però solo a 35 anni: dopo aver salito e sceso molti moltissimi scalini dall'altro lato della costiera: quelli che portano a marina d'Albori. Quattrocento? Non di meno, ma immersi in una frescura da sottobosco, la temperatura mitigata anche da un ruscello le cui acque seguono i passi dei viaggiatori. Giù in fondo la spiaggia e i suoi massi: un piccolo lido in legno offre ristoro e qualche lettino, l'acqua è senz altro più pulita di quella di Vietri, complici le correnti, e val la pena di rimanerci fino al tramonto, per non affrontare la risalita con il caldo e far la fine di quella mia amica Emilia, che trovammo distesa sul muretto, tutta svenuta, con gli occhi all'insù. Perché questo che sto raccontando è un viaggio di pochi chilometri e di molti anni, sepolti nei luoghi i tempi e nel tempo le storie, non riesco, non voglio scinderli per il lettore.
Racconta Goethe un po' piccato, nel suo viaggio al meridione d'Italia, di un ragazzetto preso a guida che al comparire del mare dopo una lunga camminata, aveva urlato forte ed era stato ripreso. Chiedendo scusa egli aveva spiegato: questa è la mia patria. Il 2009 non è la fine del Settecento, il liberismo trionfa sul neoclassicismo e io devo morigerare le espressioni per dire, ché vorrei solo ripetere con semplicità: è la terra che conosco. Quando mi innamoro pretendo di presentarla al mio nuovo uomo, non la risparmio ai miei amici del mondo che vengono a trovarmi, ma soprattutto la regalo a me stessa, in innumerevoli ritorni che portano sempre lo stesso abbaglio, lo stupore. La prima volta che mio figlio ha visto il mare, era il mare di Atrani, ma questo arriverà tra molti chilometri. Ora siamo a una cupola in maioliche che paiono scaglie di pesce: annuncia Cetara, che porta nel nome la sua origine e il suo destino: ogni anno vi si tiene la sagra del pesce azzurro. Ricordo di una processione dalla chiesa di san Pietro, in infanzia: la statua portata a spalla da robusti pescatori, giù per una scala sdrucciolevole, e poi di corsa imbarcata su una lampara infiorata, tra ali di persone che si segnavano. La processione si svolge ancora, il 29 del mese di giugno e, oggi, più che mani, a salutare il santo, ci sono cellulari a mo' di macchina fotografica che immortalano la scena. Qualche estate fa il capitano Pasquale mi ospitò a bordo della flotta di tonnare più grande del Mediterraneo: sull'ammiraglia Luigi Padre. Oltre a farmi entrare nelle viscere della nave e scoprirne la sala macchine e la plancia di comando con i super satelliti che disegnano il mare dal cielo, mi ha portato a vedere le gabbie da cui i giapponesi acquistano i pregiatissimi tonni rossi per i loro sushi. In quelle vasche, in un'atmosfera onirica, i giovani figli del capitano, Raffaele e Luigi, si tuffavano a nuotare a spirale tra i pesci. È che l'orgoglio dell'uomo e del mare non sono oggetti misurabili con il metro dei cittadini, e sì che io vivo a Napoli, ma è la Napoli della Ortese la mia. Continuando lungo la strada scavata a picco sulla roccia, solo oleandri e buganvillee a farle da contorno, sulla sinistra, con un po' di coraggio e soprattutto poiché non ci arrivo nel fine settimana, decido di scendere a Erchie.
Quando io ero piccina Erchie era una spiaggia magica, non già perché fossi piccina, ma perché attraversando una grotta che si faceva di volta più bassa e di volta più alta a seconda dello strato di sabbia trascinata dal mare, si poteva accedere a una spianata di ciottoli bianchi che rotolavano a mare. Oggi tornarvi è reso impervio dai parcheggi, ricavati da terreni che avrebbero potuto ospitare la macchia mediterranea, e che ora ospitano bruti muniti di tagliandi a prezzi esorbitanti. Ma con un motorino ancora si può sperare di arrivare all'acqua, comperare il giornale, e mangiare saporiti panini imbottiti sulla spiaggetta. Dopo, inizia il tratto di strada più bello della costa d'Amalfi tutta: capo d'Orso. Qui le gallerie, che sono trafori grezzi nella pietra per dar continuità alla strada, a ogni sbocco di luce mi proiettano oltre la roccia, direttamente a mare. Decido di fermarmi alla prima piazzola, comprare fichi e limoni dalle vecchie contadine, e inoltrarmi per le viuzze impervie, sterrate, a volte piccoli sentieri segnati dai viandanti precedenti, che portano agli speroni di roccia su cui campeggiano torri saracene e normanne. Ruderi, alberi di fico a picco sul mare, piante di capperi che sbucano da ogni dove con il colore violaceo dei loro fiori e ovunque intorno a me solo aria e mare: a capo d'Orso il lirismo è facile anche da mare: giù nel profondo, le fortunate barche si infilano nei fiordi dall'acqua gelida e si godono il mare vero.
Di Maiori e Minori non so dire molto: se non che sono passaggio forzato per chi vuole proseguire. Complice un'alluvione di vaste proporzioni, e la politica scellerata della ricostruzione, oggi dei due comuni si salvano solo il porticciolo rimodernato da poco in pietra bianca e le spiagge, confortevoli perché di sabbia abbondante: non come quelle del resto della costiera, che un anno ci sono e l'altro no, a seconda dell'estro di Poseidone. Ma poi quella bassa edilizia alberghiera, monolitica, che fa apparire i palazzi come comò in cui a ogni balcone corrisponde un cassetto, la si lascia presto alle spalle, per raggiungere il tratto più monumentale. Atrani si annuncia con la chiesa della Maddalena, il cui campanile ha un'asola che lo passa da parte a parte. È famosa per essere il comune più piccolo d'Europa, e non lo è certo per il numero di abitanti, che si accalcano invece uno sull'altro, bensì per l'estensione del suo territorio, poiché volendo ripararsi dagli sguardi del mare si è sviluppata in un'insenatura della roccia, costruendosi a poco a poco, il tetto di una casa a far da pavimento a quella superiore, fino ad avere un'immagine indescrivibile, se non con quei presepii che si vedono a Napoli, nella via di san Gregorio armeno. La grande svolta di Atrani si è avuta qualche anno fa, forse una diecina: la piazzetta è divenuta il luogo dove ci si incontra la sera. Già dalle ventidue Amalfi inizia a svuotarsi e file composte o scomposte di persone sciamano lungo il chilometro di strada costiera che le divide, verso la parte bassa del paesetto, lì dove le arcate che sostengono la strada nova rivelano la piazza. Una ripida scalinata domina i localini, e diventa il luogo naturale dove ci andiamo a sedere, dopo esserci procurati il bicchiere giusto. Dico questo: Atrani per me ha un senso che va oltre qualunque ragione. Devastata o rasserenata, innamorata o abbandonata, c'è sempre stato un giorno in cui ho preso una barca e mi sono precipitata sulla spiaggia. Christian, compagno di liceo e proprietario di due stanze appese nella roccia che paiono sacchi da trekking, stava lì ad aspettarmi. Oggi riprovo le due strade che ho imparato a percorrere da Atrani: energia e fiato compagni di viaggio, è la volta dei Ravello steps: milioni di scalini che superano un dislivello di 400 metri portando, per gole e ruscelli, strane fabbriche in disuso e case coloniche, a Ravello. Quando ero una ragazza e non sapevo che sarei diventata una scrittrice arrivavo a villa Cimbrone, e, sotto i tempietti neogotici, immaginavo i conversarii tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West. Solo il mese scorso ho scoperto 'le terrazze', piscine profondissime che ti riconducono con un solo tuffo agli anni Settanta, in attesa di fricchettoni, se ne esistono ancora, o di nostalgici del socialismo reale. Sempre da Atrani, risalendo le indicazioni pedonali per Amalfi, mi ritrovo in breve tempo a camminare lungo la stessa strada costiera, ma a picco su essa, in una viuzza senza illuminazione, non fosse per le poche case che ne hanno di propria, e per la luna, nelle sere giuste. Questa strada, che ha lo stesso panorama mozzafiato della carrabile, ma l'indiscutibile fascino di essere immersa nella natura, finisce in un supportico che è già terra d'Amalfi. Entrando in città dalla piazza comunale, senza cedere alla tentazione di un aperitivo sul lungomare, ancora un supportico mi fa sbucare sotto le scale dell'immenso spettacolare duomo di sant'Andrea. È solo il primo dei supportici a calce bianca che servivano agli amalfitani per nascondersi dalle incursioni piratesche e da quelle del sole cocente e che, a volerli seguire, tutta la repubblica marinara per la sua lunghezza si attraversa, fino alla strada delle cartiere e da lì alla Valle delle Ferriere: riserva di felci estinte in altri luoghi d'Italia. Poi una galleria va avanti per Praiano e Positano: ma io mi fermo a mangiare un pasticciotto e aspetto Katia che arriva con il prossimo aliscafo. Valeria Parrella-L'espresso by arrangement with Santachiara Literary Agency