Negli anni Ottanta è stata una modella famosa. Poi è diventata un'attivista contro l'infibulazione femminile, che lei stessa ha subito da bambina. Ecco come la somala Waris Idrie, oggi scrittrice e ambasciatrice dell'Onu, racconta la scelta che le ha cambiato la vita. E che ora è diventata un film

E' cresciuta in Somalia alla fine degli anni Sessanta, in una tribù seminomade del deserto. A 13 anni, promessa sposa a un uomo che poteva essere suo nonno, Waris Idrie è scappata a Mogadiscio e di là in Inghilterra. La leggenda narra che prima di diventare una modella famosa abbia fatto la cameriera in casa di una parente e la donna delle pulizie in un ristorante.

A fine anni Ottanta la sua bellezza androgina finisce sulle copertine delle riviste e la rende protagonista di campagne pubblicitarie per marchi importanti come L'Oreal. Ma Waris ha dentro un dolore che la perseguita. A cinque anni ha subito, come molte donne nel suo paese e nel resto dell'Africa, l'infibulazione. Ora che è adulta e celebre non ha più paura di far sapere cosa le è successo, e anzi sceglie di farsi portavoce di una campagna internazionale contro le mutilazioni genitali femminili.

Diventa ambasciatrice delle Nazioni Unite nel 1997 e si spende in ogni modo per denunciare una pratica che non riguarda solo piccoli villaggi tribali, ma anche tutte le grandi metropoli, americane ed europee, dove gli immigrati credono in questa usanza crudele e pericolosa per preservare l'onore e la purezza delle loro figlie e mogli. A Vienna, dove si è trasferita e dove ha ottenuto la cittadinanza austriaca, ha fondato nel 2002 la Waris Dirie Foundation, che si occupa del problema delle mutilazioni genitali femminili raccogliendo fondi e promuovendo campagne di consapevolezza.

E' autrice di libri che sono diventati bestseller: 'Alba nel deserto', 'Figlie del dolore', 'Lettera a mia madre' sono editi in Italia da Garzanti. Dall'autobiografia 'Fiore del deserto' è stato tratto un film, protagosta la modella e attrice etiope Liya Kebede, che uscirà negli Stati Uniti a febbraio 2011.

Da Rimini, dove è stata invitata dal Centro Pio Manzù come ospite delle Giornate Internazionali e dove ha ricevuto la medaglia d'oro del presidente della Repubblica, Waris ha risposto all'Espresso sul tema che le sta più a cuore, spiegando come l'impegno umanitario ha cambiato la sua vita.

Il suo impegno contro le mutilazioni genitali femminili è cominciato negli anni Novanta, quando lei era una modella di successo. C'è mai stato un momento in cui ha pensato che non valesse la pena di affrontare un problema così doloroso, che aveva a che fare con il suo stesso passato?
Quando ho deciso di impegnarmi su questo tema, erano in molti a dirmi che non avevo nessuna chance. Ma si sbagliavano. Negli ultimi quindici anni si è fatto di più per combattere questo fenomeno che negli ultimi 4000 mila anni. In molti paesi sono state emanate delle leggi che puniscono chi pratica l'infibulazione e, cosa ancora più importante, oggi il mondo intero è consapevole che questo crimine esiste. Questo mi ha dato molta speranza nel futuro e mi spinge a non mollare.

Lei è stata una top model famosa. Non ha mai sentito un contrasto tra il suo impegno umanitario e la sua immagine di 'celebrity'?
Essere famosi è un vantaggio, direi che è un'arma che puoi usare se vuoi trasmettere un messaggio alla collettività. Credo che tutte le cosiddette 'celebrity' dovrebbero sentirsi obbligate a mettere la fama al servizio di una buona causa, più o meno nota che sia. Il potere che hanno di attirare l'attenzione è enorme.

Di recente, lei è stata inserita nella lista dei 500 musulmani più famosi del mondo. Che effetto le fa figurare in questa classifica, considerando che tra l'altro, in Occidente, il fenomeno delle mutilazioni femminili è spesso legato all'Islam?

In primo luogo, io sono un essere umano e un'attivista per i diritti umani. Questa è l'unica 'classificazione' che conta per me. Poi, c'è da chiarire che la mutilazione genitale femminile è una pratica antichissima, che precede l'Islam e il cristianesimo. Io lo considero semplicemente un crimine contro l'umanità, contro povere bambine innocenti. Ne sono vittime 150 milioni di donne nel mondo, e a praticarlo non sono solo le comunità musulmane, ma anche le comunità cristiane, ad esempio in Egitto, in Mali e in Etiopia. Ha a che fare con l'idea di reprimere e opprimere le donne, non con la religione. E l'oppressione femminile è un fantasma che si agita in tutte le società del mondo. Lo scopo della mia fondazione è proprio quello di alzare il livello di consapevolezza e conoscenza di questo fenomeno.

Come si sente all'idea che il film tratto dalla sua autobiografia 'Il fiore del deserto' stia per uscire nelle sale americane?
Sono molto contenta del film. Lo considero un passo importante per sradicare il fenomeno non solo in Africa, ma nelle grandi metropoli occidentali, e in America in primo luogo. Nelle città in cui viviamo ci sono bambine sottoposte all'infibulazione, ma non se ne sa quasi nulla.

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