Esecuzioni sommarie. Violenze di ogni tipo. Gli orrori commessi dai russi in Cecenia raccontati nel secondo romanzo dell'autore di 'Educazione siberiana'

Una volta, mentre tornavamo da un villaggio di montagna, un vecchio si è messo in mezzo alla strada con l'intenzione di fermare i nostri blindati. Ci ha puntato addosso un fucile da caccia: un pezzo da antiquariato, tutto arrugginito. Il vecchio era disperato, piangeva e urlava qualcosa d'incomprensibile. Secondo il regolamento militare, la colonna operativa dei mezzi blindati non può fermarsi per nessun motivo estraneo all'operazione: anche se lungo la strada vedevamo una persona ferita, eravamo costretti ad andare avanti evitandola, l'importante era non fermare mai le macchine. Era anche proibito rallentare la velocità del convoglio, che doveva procedere mantenendo almeno i dieci chilometri orari, altrimenti tutti noi potevamo diventare dei facili bersagli per gli ipotetici aggressori.

Così, quando abbiamo visto quel vecchio, i ragazzi gli hanno fatto segno di spostarsi. Ma lui continuava a stare in mezzo alla strada, i piedi come incollati per terra, facendo i suoi versi strozzati e agitando l'arma, sempre puntata verso di noi. La colonna ha rallentato la marcia e uno dei ragazzi seduti sul primo blindato ha sparato una raffica in aria per spaventarlo, ma niente da fare: non ne voleva sapere di spostarsi, ero sopra la terza macchina del convoglio, e vedevo la figura del vecchio diventare sempre più grande. Quando il primo blindato si è avvicinato a lui, l'autista ha fatto manovra per evitarlo. Il vecchio ha digrignato i denti e ha appoggiato il suo fucile sulla spalla, puntandolo verso uno dei ragazzi seduti sulla macchina come se volesse sparargli. In quello stesso istante è partita una serie di colpi: tutti quelli seduti sul blindato hanno cominciato a sparare addosso al vecchio, che con un gesto di follia si era improvvisamente trasformato in un aggressore. Vedevo come i frammenti del suo vestito si staccavano insieme ai pezzi di carne, mentre le pallottole gli perforavano il corpo. In un attimo l'hanno ridotto a uno straccio, è caduto a terra vicino al suo fucile. La colonna non si è fermata. Quando anche il mio blindato è passato vicino al cadavere, ho visto che sulla giacca il vecchio aveva una serie di medaglie della Seconda guerra mondiale. Da giovane sicuramente aveva combattuto contro il Terzo Reich per difendere la Grande Patria sovietica, ed ecco come la patria anni dopo aveva ripagato i suoi sacrifici. (...)

A fine maggio abbiamo ricevuto l'ordine, molto insolito, di perquisire una moschea in un paese di montagna. A quanto pareva, dopo un intervento della nostra artiglieria, fra le rovine di una moschea, insieme a parecchie armi erano stati ritrovati i corpi di terroristi ricercati. L'esercito non aveva mai messo piede nei luoghi di culto, e adesso, improvvisamente, i reparti operativi cambiavano strategia e ci ordinavano di perquisirli. Nessuno di noi, però, credeva più alle favole. Salendo su, abbiamo raggiunto il paesino dove avremmo dovuto fare la perquisizione. C'era una pace meravigliosa: i vecchi stavano seduti sulle panchine a chiacchierare, i bambini correvano per le strade, qualche donna sbrigava i lavori di casa in cortile. Sembrava impossibile che potesse esserci qualcosa di minaccioso. Di fronte a situazioni del genere mi sentivo a disagio, eravamo lì per rovinare la vita a persone che non c'entravano nulla con la guerra, né con le sporche faccende nelle quali eravamo immersi fino al collo.

Io e il mio gruppo siamo scesi dalle macchine, marciando una decina di metri davanti ai blindati, che procedevano lentamente, a passo d'uomo. Camminavamo in mezzo alla strada con le armi in pugno, pronti al peggio. Non appena ci avevano avvistati, le donne avevano tolto in fretta i bambini dalla strada, e tutti i civili erano rientrati. Erano abituati alle operazioni militari, sapevano che dovevano lasciare aperti i cancelli e le porte delle case, uscire nel cortile, tenere le mani bene in vista e avere pronti i documenti. Noi passavamo sulla strada senza fermarci a eseguire i controlli, ma buttavamo comunque un occhio ai cortili: molti terroristi, quando lasciavano in fretta la casa per evitare le perquisizioni, perdevano qualcosa; magari dal giubbotto gli cascava un caricatore o una bomba a mano, per questo bisognava guardare bene cosa si trovava per terra, studiare gli indizi che potevano rivelare la presenza di un nemico. Avevamo imparato a setacciare ogni angolo, per scoprire dove conducevano le stradine più battute: spesso i civili nascondevano i terroristi in buche scavate sotto terra, a volte l'entrata del nascondiglio era coperta dalla cuccia di un cane, o da un capanno degli attrezzi. Il regolamento diceva che bisognava anche ispezionare le mani delle persone, cercando tracce di polvere da sparo, calli o bruciature, per capire se avessero mai sparato o lo avessero fatto di recente.

Quella volta, invece, non avevamo tempo per queste cose: eravamo diretti verso la moschea, un grande edificio al centro del paese, circondato da un muro di pietre bianche. All'ingresso c'era un enorme cancello verde, con sopra qualche scritta gialla in arabo. Secondo l'ordine operativo avremmo dovuto eseguire un'irruzione, il che significava che una nostra macchina sarebbe dovuta entrare a tutta velocità sfondando il cancello, e noi una volta dentro l'edificio avremmo buttato per terra tutto quello che ci capitava a tiro, ispezionando ogni stanza prima con richieste gentili e poi, se le persone che ci trovavamo davanti non capivano o non volevano capire, con una bella fucilata. Di solito un'irruzione dura pochi secondi, il nemico non deve avere il tempo di reagire, se invece riesce a organizzarsi e comincia a sparare, tra i militari si usa dire che "comincia la partita a ping-pong", una partita che difficilmente si vince.

La nostra macchina si è avvicinata al muro di cinta, e noi sabotatori ci siamo saltati sopra con facilità. Le pietre bianche erano belle larghe, e correndo per qualche metro su quella passerella improvvisata, siamo balzati giù dall'altra parte, nel cortile della moschea. Era tutto tranquillo: c'erano alberi tenuti con cura, panchine verniciate da poco; muri imbiancati, con dei mosaici che raffiguravano scene sacre - le figure umane erano sproporzionate, come se a disegnarle fosse stata la mano di un bambino. Dal rubinetto della fontana in mezzo al cortile gocciolava dell'acqua, segno che qualcuno aveva bevuto da poco. Vicino alla moschea non c'era nessuno, ma le porte erano aperte. Il capitano ci ha fatto segno di posizionarci lungo il muro, sotto le finestre. Poi ha preso una pietra e l'ha tirata contro il cancello, verso la strada: era il segnale per avvisare i nostri. Il blindato degli esploratori di fanteria è partito con il motore al massimo, spianando il cancello e buttando giù anche una parte del muro di cinta. Dietro correvano gli esploratori e i ragazzi dell'Omon.

Nello stesso istante noi abbiamo sfondato le finestre: io e Mosca siamo stati i primi a entrare, e in pochi secondi eravamo tutti dentro. L'edificio era ancora più grande di come sembrava da fuori, con i soffitti alti e le stanze decorate. Sui muri erano appese le foto di luoghi sacri, altre moschee e qualche ritratto di religiosi islamici. Sul pavimento c'erano dei tappeti preziosi ma negli angoli dei fiori finti, di plastica. In mezzo ai fiori erano disposte foto che raffiguravano persone armate: evidentemente erano i terroristi morti, messi in mezzo a quel verde plastificato, che simboleggiava la loro vita eterna nel paradiso islamico.

Quando abbiamo raggiunto il corridoio, ci siamo trovati davanti ad alcune persone vestite semplicemente, con le barbe lunghe. "Per terra, sdraiatevi", ha detto Mosca, sicuro di sé: "E braccia ben aperte". Hanno eseguito l'ordine senza protestare; intanto dal cortile si sentivano i primi interrogatori, erano i ragazzi dell'Omon che cercavano di recuperare più informazioni possibili. Abbiamo ispezionato il resto delle stanze senza trovare niente d'interessante, ovunque c'era la stessa roba: tappeti, fiori e alberelli finti, foto e qualche libro in arabo.

Il capitano Nosov, nostro comandante, è uscito in corridoio e ha preso da parte un vecchio imam. "Dov'è la cucina?", gli ha chiesto con gentilezza. L'anziano si è limitato ad alzare un braccio, indicando una piccola costruzione dall'altra parte del cortile. "Kolima, Mosca", ci ha detto il capitano, "venite con me". Con noi abbiamo portato un uomo giovane, che doveva essere un mullah: indossava una tunica ed era anche ben nutrito, aveva la pancia bella rotonda e guance cadenti da bulldog. Nosov lo teneva per un gomito e intanto con voce amichevole, da turista curioso, chiedeva informazioni sull'attività della moschea, sulle persone che la frequentavano, e faceva un sacco di domande che c'entravano poco con la nostra operazione. Il tipo si sforzava di rispondere con tranquillità, ma era nervoso; parlava in russo molto lentamente, cercava di pronunciare le parole nel modo più corretto possibile, doveva essere una persona istruita. Siamo entrati in cucina. Lungo i muri erano ammassate delle provviste: sacchi di cereali e di zucchero, scatole di conserve, piatti e bicchieri di plastica, insieme a piccoli fornelli da campo. Sul tavolo c'erano molte pentole, alcune lampade a petrolio, borse piene di medicinali di produzione americana, turca, svizzera e anche tedesca.

Nosov si è messo a esaminare le pentole, sfiorandole con la punta delle dita; sembrava quasi che ne misurasse le dimensioni. Ha aspettato un po', come se sapesse che l'uomo prima o poi avrebbe parlato. L'altro però stava in silenzio, con un leggero sorriso da innocente stampato in faccia. Nosov l'ha guardato dritto negli occhi e con quel tono che tutti noi conoscevamo, quello che usava quando non aveva più voglia di scherzare, ha chiesto: "Dove sono i feriti?". L'uomo si è fatto pallido, le sue mani hanno cominciato a tremare. Cercando di mantenere la calma ha alzato le braccia al cielo, come se stesse chiedendo la grazia divina, e si è rivolto al capitano con voce umile: "Quali feriti, comandante? Forse io non capisco il senso delle tue parole. Noi siamo solo servi di Dio, aiutiamo la gente del villaggio".

Nosov ha sorriso con una gentilezza da nobile inglese, si è avvicinato e senza sfilarsi i guanti, indossava quelli tattici in kevlar, rigidi e pesanti, gli ha mollato un forte schiaffo in pieno viso. L'uomo ha lanciato un urlo e poi si è accasciato a terra, scivolando giù lungo il muro come se i muscoli non riuscissero più a reggere il peso del corpo. Il naso si è subito gonfiato e ha attaccato a sanguinare, gli occhi si sono riempiti di lacrime. Da sotto il giubbotto Nosov ha estratto la pistola e gliel'ha puntata alla testa. "Mi servono i vostri feriti, subito. Se preferisci li trovo da solo, però a quel punto saranno morti tutti quanti, vecchi, giovani, donne, cani e gatti".

L'uomo ha cominciato a piagnucolare, stringendosi le ginocchia contro il petto. Respirando forte gli uscivano dalla bocca delle enormi bolle rossastre, di saliva mischiata a sangue. Nosov ha preso dal tavolo una lampada, l'ha smontata e ha versato tutto il cherosene addosso all'uomo. Quello ha cominciato a strillare come un maiale davanti al coltello del boia, mentre con le mani cercava disperato di sfilarsi il turbante inzuppato di cherosene; si vedevano spuntare i capelli sporchi da sotto le strisce di stoffa.

Il nostro capitano ha preso una scatola di fiammiferi e ne ha acceso uno, tenendolo sospeso sopra l'uomo. "Se non mi dici dove tenete i feriti ti brucio vivo", ha detto con crudeltà, stringendo in una mano il fiammifero e nell'altra la pistola. "A me della vostra cazzo di religione non importa niente, per me siete tutti da ammazzare". L'uomo singhiozzando ha buttato fuori una bufera di parole incomprensibili, fra le quali siamo riusciti a capire: "Nel giardino. dietro. sotto la tenda.".

A quel punto Nosov ha spinto la canna della pistola fra la stoffa del turbante che gli penzolava dalla testa, e ha fatto fuoco; il colpo è uscito attutito come se fosse stato usato un silenziatore, una nuvola di polvere da sparo si è sparsa tutta attorno. La testa dell'uomo è stata attraversata da parte a parte dalla pallottola, la parete a cui fino a un attimo prima era appoggiato era piena di sangue e residui di cervello. Il piede sinistro del morto ha continuato a muoversi per qualche secondo sul pavimento grezzo della cucina, grattando sul cemento con la scarpa in finta pelle. Nosov ha sputato per terra e ci ha indicato l'uscita. "Arrivo subito", ha detto.

Mentre ero sulla porta, ho visto il capitano che lasciava cadere il fiammifero acceso sul cadavere, che ha preso subito fuoco. A quel punto Nosov mi ha guardato in faccia: "Questi musulmani mi hanno proprio rotto i coglioni.".

Giulio Einaudi Editore - 'L'espresso'