La storia del primo italiano che si fidò di Steve Jobs. E divenne ricco

Nel 1979 un negoziante di Reggio scoprì quel ragazzo americano che faceva computer. E, per primo, iniziò ad importarli in Italia, cinque alla volta. Poi diventarono amici - e ricchi. Una storia inedita e sconosciuta del fondatore della Apple in Italia

“In Italia nessuno avrebbe investito sulle sue idee”, ha scritto sul 'Corriere della' Sera Jody Vender, da noi pioniere del venture capital, alla notizia della scomparsa di Steve Jobs. Errore. Proprio un italiano, però, quando Apple aveva appena lasciato il garage di Cupertino dov'era nata, è stato tra i primi a scommettere su quel simpatico giovanotto dall'aria strampalata e sul suo scatolone beige. Diventando, per un lustro, il concessionario unico dei prodotti Apple in Italia. Andando a trovare Steve a Cupertino e ospitandolo poi a Reggio Emilia. E facendo la sua fortuna. L'italiano in questione si chiama Vittorio Lasagni, sta a Reggio Emilia, e ha ora 77 anni. 
 

 

Come comincia la sua avventura con Jobs?
«L'ho cercato io. Era l'autunno del 1979, avevo una società, la Iret, con sette negozi di elettrodomestici in Emilia-Romagna. Vendevo bene, ma volevo trovare qualcosa di diverso. Così ho assunto una persona e l'ho mandata in giro per il mondo in cerca di novità. Da una fiera in Inghilterra mi torna con questo oggetto, un Apple 2: resto esterrefatto, me ne innamoro all'istante e telefono a Cupertino, dove Apple ha appena cominciato a produrre i primi pezzi. Mi passano Steve Jobs: “Ok”, mi risponde, “ci dica quanti ne vuole e noi glieli mandiamo. No, non diamo concessioni”». 
 

E lei quanti ne ordina?
«Cinque per volta. Era una cosa nuova anche per me...» 

 

Poi però diventa concessionario unico per l'Italia. Come avviene? 
«L'iniziativa fu loro. Mi telefonarono e mi dissero: “Venga a Cupertino, stendiamo un regolare contratto”. Con un interprete, il mio inglese non era dei migliori, presi un aereo e ci andai». 

 

Com'era Steve Jobs? Nel trattare affari lo dipingono come un freddo calcolatore che imponeva anticamere di giorni ai grandi delle imprese mondiali... 
«Scherza? Affabile e gentile, tutt'altro che freddo. Il feeling tra noi fu immediato, una questione di pelle. Trattammo per un paio di giorni, io, lui, Tom Lawrence e qualche altro. Volevo impegnarmi al massimo per 800 pezzi l'anno, ma mi fu detto “Almeno mille, o niente”. Ero spaventatissimo, ma accettai. Firmammo il contratto su un tovagliolo a fiori gialli e arancione in un ristorante americano. Davanti a una buona tavola, puro stile reggiano...» 

 

E quanti Mac vendette? 
«Tornando a casa, in aereo, mi venne in mente di comprare una pagina del Sole-24 ore. Diceva: “Due milioni di italiani avranno un computer e non lo sanno”. I primi mille li esaurii in tre mesi, li riordinai subito, poi sempre di più, sparivano in un battibaleno. Già tra l'80 e l'81 il fatturato della mia Iret informatica passò da 2,8 a 16,5 miliardi di lire». 

 

E Steve Jobs lo ha rivisto? 
«Certo. Venne lui da me a Reggio Emilia, credo fosse l'80, a vedere come vendevo i suoi gioielli. Gli piacque, il nostro rapporto si rafforzò, lo portai anche un po' in giro per la città: “Quant'è bella!”, esclamò davanti alla fontana classica in faccia al Teatro Municipale, quella sparita da quando hanno rifatto la piazza». 

 

Traccia nei giornali locali? 
«Non se ne accorse nessuno. Ma chi lo conosceva allora Steve Jobs? Il suo Mac era un oggettino da piccola nicchia, tutti stavano dietro a Ibm, Olivetti eccetera». 

 

Poi però dovette lasciare la concessione. Screzi?
«Mai. Al contrario, è stato sempre un rapporto bello e pulito, da parte di entrambi. Anzi, quando un paio di persone, intermediari di loro fiducia, provarono a sottrarmi la concessione per cederla ad altri, Steve Jobs appena lo seppe cacciò costoro e tenne saldo il rapporto con me. E alla scadenza del contratto, 1983 con preavviso di un anno, non solo non tentò nessun trucchetto ma mi pagò svariati miliardi per rientrare in possesso della concessione e gestire direttamente come Apple la distribuzione dei suoi prodotti. Era la loro politica in tutto il mondo». 

 

Ha continuato a vendere Apple? 
«Sì, come distributore. Buttandomi anche in qualche altra avventura imprenditoriale, alcune riuscite altre meno, com'è nell'ordine delle cose. Ora è tutto in mano ai miei figli, Rachele e Andrea. Quanto a me, da pensionato, mi diverto a giocare un po' con la finanza, faccio fruttare i miei guadagni. Sì, l'azzardo mi è sempre piaciuto, non ho mai smesso di scommettere...»

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