L'ultimo libro dello scrittore peruviano è anche il suo migliore: un romanzo ambientato un secolo fa in un carcere londinese, ma che ci parla di schiavitù, di omosessualità e di libertà
Basta scorrere le prime righe del romanzo "Il sogno del celta" di Mario Vargas Llosa (mirabile traduzione di Glauco Felici, Einaudi, pp. 422, E 22), per esserne conquistati. Oltre che essere un uomo di rara gradevolezza personale, lo scrittore peruviano (da molti anni residente a Londra), premio Nobel lo scorso anno, dimostra di essere nel pieno della propria vigoria letteraria, perché questa sua ultima fatica è, a mio modo di vedere, una delle sue cose migliori. Siamo ai primi del Novecento.
Roger Casement è imprigionato in un carcere londinese, dove attende che la condanna a morte per le sue attività di patriota irlandese contro il Regno Unito venga commutata in una pena più clemente, come tanta opinione pubblica chiede, oppure applicata. Intanto, affiora la sua complessa vicenda umana: dal Congo all'Amazzonia, alla scoperta delle proprie radici cattoliche in Irlanda.
Ambasciatore britannico e fiero oppositore del re belga Leopoldo II - la cui feroce politica di sfruttamento schiavistico in Africa sarà oggetto di una clamorosa denuncia di Casement - estimatore e amico di Joseph Conrad, come di altre influenti personalità del tempo, grande idealista e omosessuale dannato e infelice, il protagonista del "Sogno del celta" è una specie di idealtipo delle contraddizioni e degli slanci positivi di tanta intellettualità progressista appartenuta al secolo scorso. Mentre la sua battaglia per la libertà dei popoli preconizza quello che diverrà poi il movimento anticoloniale. Ma, al di là delle sue implicazioni politiche, il romanzo di Vargas Llosa è prima di tutto una lettura di straordinaria felicità.