Facciate essenziali. Cortili barocchi. Castelli a profusione. Collezioni mirabolanti. Sensualità e teatralità tutte da scoprire nella ex capitale
Niente è davvero come sembra, a Torino. La città è sempre un po' più avanti rispetto a dove credi di trovarla; o dislocata su un altro piano. Ama giocare di sponda, rimanda a un possibile altrove: è una meta-città. Secondo il noto detto, falsa e cortese, ma falsa come può esserlo l'invenzione letteraria, che fa uso di lenti deformanti per rivelare quello che a occhio nudo non si vede.
Torino va decrittata, per questo scrittori e artisti ci riescono meglio di altri. Approdato in una notte di luna in piazza Castello, alla vista della cupola della Sindone illuminata Stendhal confessa che gli pareva d'essere in una misteriosa città indocinese. Giorgio De Chirico scopre che nella metafisica vastità delle sue piazze si nascondono enigmi, profondità elusive. Alexandre Dumas, in attesa di incontrare Garibaldi, sceglie le vie dell'estasi sensuale e si abbandona alle gioie del bicerìn.
Il Mattia Pascal di Pirandello, ammirando un tramonto sul fiume e la trasparenza dell'aria, teme di perdere la ragione di fronte all'ebbrezza di libertà che quegli spazi suggeriscono. Nietzsche si identifica nell'impulso verso l'alto che anima la Mole Antonelliana, l'edificio più geniale, diceva, che sia stato costruito, e fa sua la sfida prometeica di un architetto non meno folle di lui: una sinagoga mancata che si permette di il lusso di diventare un puro simbolo. Perché questa città illuminista, già governata da una razionalità militare e poi industriale, non si sottrae a quella che riconosce essere la sua vocazione, la sua inclinazione naturale: fingendo di assecondarla, si dedica al segreto piacere di parlare d'altro, di perseguire fantasie e pulsioni inconfessabili, ma coprendole per prudenza con i veli dell'understatement. Il controllo di sé nasconde un esibizionismo teatrale, la voglia di sedurre, di stupire.
Al flâneur di oggi che decidesse di dedicare qualche giorno a Torino consiglierei proprio di misurarsi con queste tecniche di seduzione apparentemente fredde. Certo, le parvenze sono quelle della misura, dell'ordine, della regolarità. Stupivano piacevolmente Charles de Brosses, e poi Henry James, e poi Mark Twain; ma non ingannavano Riccardo Bacchelli, cui l'impianto ortogonale della città, così geometrico e squadrato, dava una sottile vertigine: quelle vie diritte, interminabili, dovevano rimandare a un qualcosa che era meglio non accertare... Torino falsa magra, l'ha chiamata Augusto Monti, burbero-benefico professore del Liceo d'Azeglio tra le due guerre, maestro di una generazione di odiatori di tiranni, i Foa, i Ginzburg, i Mila, i Bobbio, i Pavese, gli Einaudi.
Austera e nascostamente procace, di una sensualità mimetizzata che si lascia scoprire a poco a poco. Un "fuori" ordinato di palazzi che sfilano ordinatamente come reggimenti in parata. Un "dentro" dove si può sfrenare la "sovrabbondante pompa" dell'invenzione, dove si srotolano i tesori dell'inconscio figurativo: colonne tortili, riccioli, volte sontuose, ornamenti che anticipano il floreale déco. Perché il meraviglioso e lo stupefacente non vanno esibiti, ma semmai riservati agli sguardi di pochi intenditori. Affacciarsi ai cortili dei palazzi signorili (Palazzo Cisterna, Birago di Borgaro, Carpano, Graneri, Cavour...) è perdersi in un mare di incantamenti occulti.
Le scissioni di una città dai molti volti si incarnano in Palazzo Madama, vero lapsus freudiano dei Savoia, ircocervo di stili, maniere e ambizioni. Fortezza difensiva, dimora ducale, sede di governi, senato, prigione, caserma, museo, osservatorio astronomico e finalmente scrigno di sontuose collezioni reali... Se tutto intorno gli architetti reali hanno provato a disegnare una città cartesiana avanti lettera, che ha la febbre delle "quadrature", degli "ammodernamenti", degli "allineamenti", il palazzo dice altre cose. La parte medioevale ricorda la fatica delle origini, la difficoltà di crescere.
Quella moderna, poi definita dallo Juvarra, è già teatro: esprime la sicurezza di chi ormai può guardare il mondo come una vasta platea degna delle sue gesta. Sin da quando decidono di portare la loro capitale a Torino, i duchi di Savoia, vasi di coccio in mezzo a troppi vasi di ferro, hanno chiare due concetti attualissimi: che la comunicazione è tutto e che bisogna investire in cultura: stupire l'Europa con effetti speciali. Così, facendo ogni volta il passo più lungo della gamba, costruiscono una "corona di delizie", collana di residenze ambiziose destinate allo svago e alla caccia, ma prima di tutto simboli di stato: la villa della Regina sulla precollina della città, ma ben fuori di quella i castelli di Rivoli e della Venaria, la palazzina di caccia di Stupinigi, Millefiori poi Mirafiori... E Moncalieri, e Racconigi.
Costruire non basta. Occorre farlo sapere in giro. A fine '600 una Madama reale ha l'idea geniale di commissionare una raccolta di vedute incise in rame di città, palazzi e possedimenti del ducato, e farne un grande album stampato da un raffinato tipografo-editore di Amsterdam: il Theatrum Sabaudiae propone alla nostra ammirazione non solo quello che realmente esisteva, ma anche i cantieri in corso, il profilo ideale di residenze e di centri che avevano l'ambizione di porsi come esemplari.
A caccia di questa teatralità nascosta, non si perda il nostro flâneur il pezzo più sbalorditivo: il palazzo di piacere e di caccia di Venaria: aperto a metà del Seicento da Carlo Emanuele II, riaperto nel 2007 dopo un degrado secolare e dieci anni di lavori. Allora come oggi, un investimento colossale, via via arricchito di una chiesa, di grandi padiglioni, di scuderie e citroniere, della sontuosa Galleria Grande detta di Diana, invidiata del re di Francia, dei giardini che corrono a perdita d'occhio verso le montagne con le loro armoniose geometrie, le fontane, i laghi destinati alle naumachie. D'Annunzio in visita ai primi del '900 ne restò folgorato.
Forse solo degli architetti che venivano di lontano, Guardini, Juvarra, potevano avere una percezione così esatta dei committenti e rivelarli a se stessi. I maestri portavano alla città degli angoli retti curve morbide e sinuose, rotondità che ti abbracciano, ti avvolgono, forse ti inghiottono. I sabaudi imparavano che tra fantasia e geometria, tra piacere estetico e ragion pratica, tra tecnica e arte c'è un nesso profondo. Basta visitare l'Armeria ospitata in un'ala di Palazzo Reale: i suoi pezzi possiedono la necessità del freddo design innovativo e una sorta di aerea fantasia ariostesca: gli iperrealistici cavalli di legno, rivestiti di pelle autentica, svaporano nel surreale.
L'esattezza del calcolo non esclude ma anzi stimola la passione per il meraviglioso, l'esotico: la stupefacente "scala delle forbici" , il gabinetto delle lacche cinesi... Il Borgo Medioevale impiantato nel 1884 in riva al Po dal De Andrade è un falso d'autore più vero del vero. Il Palazzo degli Istituti Anatomici che ospita il Museo Lombroso è sormontato da due minareti che non c'entrano niente, puro effetto scenografico. Le stesse collezioni assemblate dal criminologo positivista (abbondanza di crani, cervelli in formalina) diventano una favola nera, spaventevole e rassicurante come tutte le fiabe (non contenti, Lombroso e i suoi trasformavano anche le loro relazioni scientifiche in ghiotti feuilleton dell'orrore).
L'edificio ospita anche la mirabolante collezione di frutti artificiali (in resina dammar e polvere d'alabastro) del cavalier Francesco Garnier Valletti, scienziato e artista, già modellatore alle corti di Vienna e San Pietroburgo. L'intento scientifico e didascalico trapassa in incantamento, Magritte non è lontano. Forse anche Eataly, la boutique di massa del prodotto di nicchia, discende dai lombi del cavalier Valletti: è spettacolo prima che paradiso del ghiottone. Nel negozio di Via Lagrange, anche Guido Gobino, l'Einaudi del giandujotto, ti conquista anzitutto con le abbaglianti livree dei suoi cioccolatini. Quale altra città può vantare una gipsoteca come la Mondazzi di via Principe Amedeo, con centinaia di copie in gesso di sculture celebri, da Fidia a Michelangelo, portentoso corteo di fantasmi, catalogo borgesiano di storie possibili? In quale altra città poteva mai nascere quel laboratorio dei sogni che è il cinema? O un Museo del cinema che grazie a François Confino gareggia in magie con lo stesso cinema?
Sono dei piccoli teatri goldoniani anche i celebri caffè: Fiorio (già caro a Melville e al suo traduttore Pavese), Mulassano, Platti, Baratti & Milano. La componente voyeuristica del torinese (fantasticare è meglio che guardare) è addirittura clamorosa nel giovane Gozzano che spia maliziosamente le signore e signorine che, "le dita senza guanto", s'ingozzano di paste, e vorrebbe baciarle tutte: la vorace che solleva la veletta quel tanto che basta a divorare in fretta la preda; l'ansiosa, la cogitabonda riflessiva, la sognatrice che degusta "crema e cioccolatte" come "superliquefatte / parole del D'Annunzio". O quell'altra che "con bell'arte / sugge la punta estrema: / invano! Ché la crema / esce dall'altra parte".
Per finire in bellezza, tornare a Palazzo Madama per gustarsi le collezioni con cui i Savoia cercarono di esorcizzare le loro ansie da prestazione: tele superbe come il ritratto di gentiluomo di Antonello da Messina, sculture, smalti, avori, maioliche, porcellane, vetri e graffiti, ori e argenti, i mobili del Piffetti, codici miniati... Sbalorditi, ammirati, ci si può ritemprare all'elegante caffetteria color panna affacciata su piazza Castello. A Parigi se la sognano, una cosa del genere.
Ernesto Ferrero è scrittore, critico, editore, direttore del Salone internazionale del libro di Torino, Ernesto Ferrero è autore di saggi e romanzi