La scuola del nostro Paese vanta ancora l'eccellenza. Peccato però che manchino totalmente i fondi per la ricerca, pubblica e privata. E che otto ragazzi su dieci siano costretti ad emigrare
di Elisa Manacorda
22 settembre 2011
Dalle colline torinesi il panorama è mozzafiato: nelle giornate di primavera, se il cielo è terso, oltre la guglia della Mole si stagliano le cime delle Alpi. Godere di questo panorama non è da tutti: ma per Santo Fortunato, research leader della Fondazione Isi (l'Istituto per l'interscambio scientifico) con sede a Villa Gualino, poco fuori città, è solo uno dei tanti vantaggi che comporta l'essere rientrati in Italia. Classe 1971, una laurea in Fisica delle particelle all'Università di Catania, un'esperienza a Bielefeld, in Germania, due anni negli Usa, all'Università dell'Indiana, Fortunato è rientrato in Italia nel 2007, folgorato sulla via di Damasco dalla fisica dei sistemi complessi, per studiare il comportamento collettivo degli elettori, che agiscono in modo prevedibile come fossero particelle atomiche. Insomma, dalla fisica classica alla fisica dei sistemi sociali ed economici, una scelta obbligata. "Quello delle reti complesse è un ambito nuovo ed estremamente promettente, anche perché ha delle ricadute immediate sulla vita della società". E conquistare finanziamenti è più facile. Così, senza rimpianti, Fortunato ha accettato l'offerta torinese e si è rimesso sui libri.
Bravo, a riconvertirsi. Ma anche solido. Perché ben piantato nella grande tradizione della fisica italiana, una disciplina nella quale siamo tra i migliori: notizia di ieri è che la metà dei premi assegnati quest'anno dalla European Physical Society ai dieci migliori fisici europei è arrivata in Italia: Luciano Maiani (già presidente del Cnr), l'astrofisico Paolo De Bernardis, Davide Gaiotto che studia le supersimmetrie nel mondo naturale, il giovane cosmologo Paolo Creminelli e l'altrettanto giovane fisico delle alte energie Andrea Rizzi. Non solo: a guidare la prestigiosa società europea sarà ora la bolognese dell'Infn Luisa Cifarelli, eletta presidente Eps.
E tutto questo non certo per merito dei governi che soldi non ne hanno mai dispensati. "La nostra scuola è ancora molto forte", conferma Roberto Petronzio, ordinario di Fisica Teorica presso l'Università di Tor Vergata a Roma e presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: "Basti pensare che i coordinatori dei quattro principali esperimenti di Lhc, l'acceleratore di particelle del Cern di Ginevra, sono tutti italiani. Dunque la grande tradizione non si è interrotta. Ma se le condizioni non dovessero cambiare, i giovani potrebbero perdere interesse nei confronti di questo settore".
A preoccupare sono ovviamente gli inesistenti investimenti pubblici uniti all'assenza, unica in Europa, di grandi investimenti industriali. Ma i più bravi i soldi vanno a cercarseli dove ci sono. Come ha fatto Fabio Franchini, 35 anni, fisico teorico della Sissa di Trieste, che si è aggiudicato 300 mila euro dalla Commissione europea per la sua attività di ricerca sul fenomeno della conduzione elettrica. Non solo: Franchini è così bravo che in questi giorni prenderà servizio al Massachusetts Institute of Technology dove per due anni farà ricerca per poi rientrare e completare il progetto di ricerca alla Sissa. I soldi Franchini se li è trovati e di certo è stato bravo. Lui tornerà. Ma non va così per tutti.
Secondo i dati del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, infatti, i fisici hanno la percentuale più elevata di emigrazione: otto ragazzi su cento partono alla volta di Stati Uniti, Francia, Germania, Inghilterra, contro il 4,5 per cento del resto delle discipline. Lo conferma Tommaso Maccacaro, direttore dell'Osservatorio Astronomico di Brera: "I nostri ragazzi se ne vanno per mancanza di opportunità: con il blocco del turn over, per cinque ricercatori che vanno in pensione, solo uno può aspirare a un posto". Così, più di quanto accada in altre discipline, questi ragazzi dalla formazione di ferro e dal curriculum decisamente appetibile, decidono di lasciarsi l'Italia alle spalle. Non tutti, ovviamente. Quelli che restano, però, devono riporre nel cassetto i sogni accademici e darsi da fare. Cercando un impiego nell'industria, nella finanza, nelle assicurazioni, nelle banche. Oppure facendo fruttare quella caratteristica che i fisici si ripetono come un mantra: noi siamo quelli che risolvono problemi. Dunque accettando ruoli manageriali e organizzativi nei settori più disparati. Sarà forse anche per questa capacità di reinventarsi che il tasso di occupazione dei laureati specialistici in Fisica a un anno dalla laurea, sempre secondo i dati AlmaLaurea, tocca l'89 per cento. Un dato più che positivo anche se è vero che molti di questi ragazzi, a un anno dalla laurea, stanno ancora facendo il dottorato di ricerca. E per loro il futuro è incerto: una volta finito, dove troveranno lavoro? "La nostra salvezza spesso si è chiamata Europa. Molti dei nostri progetti sono finanziati da bandi competitivi della Commissione europea", spiega Elisa Molinari, professore di Fisica della Materia all'Università di Modena e Reggio Emilia e direttrice del polo di Modena dell'Istituto Nanoscienze del Cnr. Ma in quell'ambito c'è spazio soprattutto per progetti di interesse industriale, specie quelli con ricadute a medio e breve termine. Se mancano altri canali di finanziamento, si finisce per avere poca autonomia nella scelta delle strategie scientifiche su tempi lunghi. E invece anche la ricerca fondamentale avrebbe bisogno di spazi e fondi, da assegnare sulla base della qualità scientifica delle proposte da valutare con peer-review. Non solo: i bandi europei finanziano prevalentemente le attività, non gli strumenti. Così i laboratori invecchiano. "Molti dei nostri gruppi di ricerca sono oggi ai vertici internazionali grazie a investimenti del passato e alla determinazione di molti ricercatori e ricercatrici. Ma quanto potremo reggere?", conclude Molinari. Che la scuola italiana sia - nonostante tutto - di altissimo livello lo dimostra anche il Sir World Report 2010, prodotto dallo Scimago Research Group. I dati relativi alle scienze fisiche dicono che il Consiglio nazionale delle ricerche occupa il nono posto (per dire, il Mit di Cambridge si trova al quattordicesimo, Berkeley ancora più giù) nella classifica degli enti di ricerca a più alto impatto scientifico per pubblicazioni e collaborazioni internazionali. Alla posizione 46 troviamo il secondo ente di ricerca italiano: guarda caso, l'Istituto nazionale di fisica nucleare. Ma anche sull'eccellenza compaiono le prime crepe. Perché non solo mancano gli investimenti pubblici per le infrastrutture, ma anche quelli privati latitano. "Dove sono le aziende italiane? Perché i soldi del fondo per la ricerca sono stati dati alle imprese, che poi non li reinvestono?", si chiede Luciano Maiani, fisico ed ex presidente del Cnr: "Anche noi facciamo affidamento sui fondi europei, il Cnr è l'unico ente italiano nella top 50 dei percettori. Purtroppo manca un'azione coordinata, e ogni ente va per conto suo. In Francia esiste una funding agency nazionale. Da noi questo ruolo dovrebbe svolgerlo il ministero della Ricerca. Che però ha difficoltà a farlo". In questa battaglia di resistenza, anche le donne fanno la loro parte. Con una fatica se possibile superiore a quella dei colleghi maschi. "L'Italia ha prodotto tante eccellenze al femminile. Ma è impressionante contare quante di queste sono all'estero e non rientreranno più. In Italia le percentuali sono equivalenti fino al post-dottorato. A livello di posti di ruolo, però, la percentuale di donne nella ricerca diminuisce drasticamente. E continua a calare man mano che si sale di livello", commenta Molinari. Poche ma toste. Come Gelsomina Pappalardo, tornata in Italia dopo aver lavorato al Goddard Space Flight Center della Nasa e oggi ricercatore all'Istituto di metodologie per l'analisi ambientale del Cnr a Tito Scalo, in provincia di Potenza. Per due mesi, da quando il vulcano islandese Eyjafjallajkull ha cominciato a eruttare ceneri, il suo laboratorio è stato il punto di riferimento per le autorità aeroportuali di mezza Europa. "La nostra rete di monitoraggio era l'unica in grado di dare dati attendibili sulla presenza di polveri nell'atmosfera, e tutti chiedevano a noi come regolarsi per la chiusura o meno degli scali". Fisico, donna, e per di più meridionale, Gelsomina ha scelto di tornare: "Perché qualcuno deve pur farlo. Rimbocchiamoci le maniche, mi sono detta. E non mi sono ancora pentita".