Circa 50 mila nuove diagnosi ogni anno, con 18.500 decessi. La neoplasia del colon è e resta uno dei big killer. Ma aumenta la conoscenza dei fattori di rischio e l'importanza della diagnosi precoce

Il tumore del colon è e resta uno dei big killer: circa 50 mila nuove diagnosi ogni anno, con 18.500 decessi. Ma a guardare i trend, sembra proprio che sia iniziata una china inesorabile: l'aumento delle diagnosi degli ultimi anni sta rallentando, e questo grazie a un fattore che ha poco a che vedere con bisturi, raggi e farmaci: la cultura. Dopo decenni di crescita, infatti, laddove poco o nulla hanno potuto le terapie, sta arrivando la conoscenza dei fattori di rischio e, soprattutto, dell'importanza della diagnosi precoce, certificata anche da uno studio recentissimo che ha mostrato una netta diminuzione dell'incidenza e della mortalità in chi si sottopone alla colonscopia rispetto a chi non la fa. La pensa così Ermanno Leo, direttore dell'Unità di chirurgia colon-rettale dell'Istituto dei tumori di Milano.

Professor Leo, tutto merito di una vita sana?

«Il tumore del colon è quello che si potrebbe definire un caso di scuola. Non c'è nessun'altra forma tumorale di cui si sappia così tanto: perché viene e, soprattutto, quali sono i passaggi che portano dalle prime formazioni benigne a quelle più pericolose. E non c'è nessun'altra forma in cui la separazione tra forme curabili e non è così netta. Da qui l'importanza della prevenzione e della diagnosi precoce. Si è capito che bisogna mangiare meno carni rosse, più vegetali freschi, più fibre, che bisogna muoversi di più e non fumare. L'altro fattore di enorme importanza è quello della diagnosi precoce: si sa che se il risultato di una colonscopia è negativo si possono attendere dieci anni per farne un'altra, e questo vuol dire che, anche se l'esame è fastidioso, tutti, dopo i 50 anni, dovrebbero sottoporvisi, perché trovare il tumore quando è in fase iniziale, come detto, fa realmente la differenza. Oggi, grazie alla diffusione di questa consapevolezza, le diagnosi precoci aumentano, e con esse sale il numero di malati che guariscono».

E quando la malattia c'è?
«Negli ultimi vent'anni, anche se non molti lo ammettono, la farmacologia non ha avuto successo in questo tumore: poco o nulla è cambiato, neppure con le molecole più nuove e selettive. Ciò che abbiamo visto mutare, e anche profondamente, sono le tecniche chirurgiche, che oggi permettono di fare interventi sempre meno demolitivi e di evitare a molti malati effetti collaterali come la perdita della continenza, con grandi vantaggi per la qualità di vita».

Pochi anni fa il suo gruppo ha annunciato importanti risultati con il vaccino che blocca la survivina, proteina la cui assenza induce il suicidio delle cellule malate. Com'è andata a finire?
«Anche in questo caso possiamo parlare di una situazione esemplare, anche se per altri motivi. Nei malati (una quindicina) che avevano provato il vaccino, le recidive scendevano dal 16 al 2 per cento, e molti altri dati erano positivi (compresa un'ottima tollerabilità). Ma siccome non era coinvolta nessuna multinazionale del farmaco, la sperimentazione è finita su un binario morto, a riprova del fatto che oggi la libertà di ricerca è poco più di una bella idea. Per questo, per ora, non resta che affidarci alla cultura, alla diffusione delle conoscenze, sperando che prima o poi maturi una coscienza diversa nell'opinione pubblica, l'unico fattore che potrebbe avviare e sostenere un approccio diverso alla ricerca».