Cecchino infallibile. O bugiardo psicolabile. Nel suo nuovo lavoro dietro la macchina da presa, il regista 84enne torna a descrivere il confine tra coraggio e crudeltà. Tutti ne parlano ma  “l’Espresso” lo racconta davvero

F allujah, Iraq. Un convoglio di carri armati americani affiancato da soldati avanza sotto l’occhio vigile di Chris Kyle, cecchino dei Navy Seals appostato su un tetto. Il suo mirino si sofferma su un uomo che parla al cellulare, poi su una donna con un bambino che si avvicina alla “processione”. La madre passa qualcosa al figlio che subito si dirige verso il battaglione. Kyle spara: un colpo al bambino, uno alla madre. Il piccolo aveva in mano una granata, la donna era una kamikaze pronta a farsi esplodere. Per il cecchino però è la prima missione, e il volto gli si contrae per l’orrore.

Comincia così “American Sniper”, ultima fatica registica di Clint Eastwood. A 84 primavere suonate, il leggendario film-maker confeziona una strenna (negli Usa esce il 25 dicembre, in Italia il primo gennaio) su un tema non proprio natalizio: le mirabolanti imprese di un cecchino. Un film che farà discutere, perché quel cecchino è pieno di ombre: e c’era da aspettarselo, con un regista che ha dedicato due film gemelli a mettere in discussione l’immagine oleografica dell’eroismo statunitense: “Flags of Our Fathers” e “Lettere da Iwo Jima”. Al suo primo apparire, in una preview riservata a pochi addetti ai lavori al recente American Film Market di Los Angeles, “American Sniper” è stato accolto con entusiasmo. Le poche recensioni sono state saccheggiate dai giornali di tutto il mondo. “L’Espresso” è in grado ri raccontarlo nei dettagli.

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Alla base c’è l’omonima autobiografia di Chris Kyle, il più efficiente tiratore scelto della storia militare americana rimasto banalmente ucciso, quasi per una legge del contrappasso, in un poligono di tiro per mano di un giovane reduce affetto da stress post-traumatico. Un eroe o un assassino? Un modello o un millantatore? Kyle è in realtà un personaggio decisamente controverso e dai molti lati oscuri, a partire dal suo record di uccisioni: 255 secondo i suoi calcoli, “solo” 150 secondo il Pentagono. Fu attivo in Iraq dal 1999 al 2009, in particolare a Fallujah dove si mise in luce come macchina per uccidere efficiente e implacabile, un Rambo 2.0 sempre in prima linea nella guerra al terrore di marca Bushiana.

Per i Navy Seals era “La Leggenda”, per i ribelli iracheni il “Diavolo bianco di Ramadi” e sulla sua testa pendeva una taglia da 180mila dollari. Ma a sfatare il mito di Chris Kyle ci ha pensato il “Washington Post” qualche tempo dopo la sua tragica morte, nel febbraio 2013. Interrogando cronisti e investigatori, il giornale ha confutato la veridicità di tutti gli avvenimenti post-bellici raccontati nella sua autobiografia: la rissa con l’ex governatore Ventura, l’uccisione seriale di sciacalli che rubavano nella New Orleans devastata da Katrina, i due ladri colpiti a bruciapelo in una stazione di servizio a Dallas.

Non un eroe tutto d’un pezzo, ma un macho contaballe di prima grandezza: cosa che getta una luce inquietante anche sulle presunte prodezze militari.

Scritto da Jason Hall, attore fallito e ora richiestissimo sceneggiatore, “American Sniper” - che aveva anche attratto l’interesse di David O. Russell e Steven Spielberg - è molto più di un pezzo di becera propaganda a stelle e strisce: è una disamina sulla natura distruttiva e la dimensione interiore di un killer addestrato, in perenne conflitto tra i doveri di guerrigliero e il richiamo del ménage familiare. Sul grande schermo Kyle ha il volto di Bradley Cooper, qui in duplice veste di attore e produttore (aveva acquistato con la sua compagnia 22nd & Indiana Pictures, i diritti delle memorie del cecchino). La moglie del protagonista è Sienna Miller, finora più nota per gli exploit da cronaca rosa che per qualsivoglia talento recitativo.

Nella scena delle prime due uccisioni di Kyle, il regista inserisce un lungo flashback. Vediamo Chris iniziato dal padre ai riti della caccia (con annesso squartamento di cervi) nel nativo Texas, una promettente carriera di cowboy da rodeo stroncata da una mano traballante, l’arruolamento nei Navy Seals dopo l’attentato al World Trade Center del 1993, le prime fallimentari esercitazioni militari, l’iscrizione alla scuola per “sniper” e intanto l’evento della sua vita privata: il matrimonio con Taya, sull’onda emotiva dell’11 settembre.

Il film ci riporta in Iraq, dove Kyle si mette in luce in diverse sanguinose operazioni alla ricerca del giordano Al-Zarqawi, braccio armato di Bin Laden e leader jihadista in Iraq, e del suo luogotenente Amir Khalaf Fanus, “il macellaio”. La vita di Kyle scorre tra l’Iraq e casa, dove torna regolarmente in licenza per accudire Taya che dà alla luce prima una bambina, poi un bambino. La sua fama di tiratore scelto cresce di giorno in giorno, ma “il macellaio” continua a sfuggirgli. Sarà una banda di iracheni, capitanati da un capo tribale, a consegnare alla fine il ricercato numero uno agli americani, dopo che Al-Zarqawi era rimasto ucciso in un raid aereo delle forze alleate. Nel frattempo però lo stress della guerra comincia a farsi sentire.

Chris vede i suoi compagni morire intorno a lui. La sua vita è un pendolo tra le nuvole di sangue che seguono i suoi colpi andati a segno e quelle che segnano la morte dei suoi amici. Durante i periodici ritorni a casa è vittima di allucinazioni paranoiche, e appare sempre più avaro di calore umano e sordo alle esigenze di moglie e figli. Se Taya prova a chiedergli cos’ha, lui non risponde. Solo una volta cerca di essere sincero: «C’è gente che muore laggiù, e se mi guardo intorno qui non sembra neanche vero. Non c’è nei notiziari, non ne parla nessuno. Non importa niente a nessuno. E se resto qui troppo a lungo, me ne dimenticherò anche io».

Quarta e ultima missione: a Sadr City, Baghdad, l’esercito Usa decide di erigere una barriera di cemento per contenere le crescenti violenze dei miliziani sciiti. Chris, a guardia del cantiere, assiste impotente mentre i suoi compagni cadono come birilli sotto i colpi di un misterioso tiratore. Gira il mirino alle sue spalle, si sofferma casualmente su una macchia microscopica a due km di distanza.

Apre il fuoco: il killer muore ma lo sparo rivela la sua posizione. Uno sciame di ribelli circonda l’unità militare, Chris li affronta uno a uno e corpo a corpo ma la situazione è disperata. Un F-18 scarica tonnellate di bombe su tutto l’isolato, è il caos, lingue di fuoco illuminano l’oscurità. Chris se la cava ancora una volta per il rotto della cuffia. Ma poi dice basta. Il medico dell’esercito che lo visita gli spiega: «Chi parte per la guerra combatte su due fronti in realtà: c’è una guerra qui e una guerra a casa». Kyle torna a combattere a casa. Cerca di ricomporre i cocci del nucleo familiare finché il destino non lo raggiunge in quel poligono di tiro. Prima di morire però ha passato il testimone al figlio. È di nuovo una mattina di caccia, il bambino spara a un cervo e lo uccide. «Hai un dono, figlio mio», gli dice il Kyle, «ma questo dono porta una responsabilità. Quando premi il grilletto devi farlo per la ragione giusta».

Lo ha sempre fatto per la ragione giusta, lui? È stato un eroe o un assassino? Fino alla fine del film Eastwood non fa capire da che parte sta. Poi, nella scritta che occupa alcuni degli ultimi fotogrammi, prende una posizione decisa, che farà molto discutere. Ma chi conosce il grande cantore della fine del sogno americano, sa bene che con lui non si sa mai cosa aspettarsi.