A partire dal nuovo film di Ari Folman (il 10 e l'11 giugno solo per i notri lettori), una riflessione sulle infinite gradazioni di sfruttamento della tecnologia, utilizzata per modificare e integrare le prestazioni sul grande schermo. Di cui Robin Wright che diventa un cartoon è solo l'ultimo esempio
«The Congress»,
on line in anteprima su E+ il 10 e l’11 giugno, è una riflessione sul ruolo dell’attore nell’età digitale. L’autore è il regista israeliano Ari Folman, nominato all’Oscar per il documentario animato autobiografico «Valzer con Bashir», ricostruzione della sua esperienza nell’invasione del Libano nel 1982 e del massacro di Sabra e Shatila, vissuti quando era un soldato diciannovenne. Anche in
«The Congress», interpretato da Robin Wright, Harvey Keitel, Paul Giamatti, Danny Huston e Kodi Smit-McPhee, dopo una prima parte in «live action», Folman si affida all’animazione, trasformando gli attori in cartoon per raccontare una storia solo vagamente ispirata al romanzo di Stanislaw Lem «Il congresso di Futurologia» (1973).
Il film comincia con un primissimo piano di Robin Wright, gli occhi persi nel vuoto e le guance rigate di lacrime, mentre il suo agente (interpretato da Keitel) la supplica di ascoltare la proposta dei Miramount Studios (evidente crasi tra Miramax e Paramount), perché la sua carriera ormai non ha più sbocchi. La proposta è semplice: in cambio di un ricco compenso Robin deve vendere allo Studio la propria identità cinematografica. L’immagine dell’attrice sarà così digitalizzata, attraverso la scansione del corpo e delle emozioni, creandone un duplicato immutabile e utilizzabile in qualunque film per i successivi venti anni, durante i quali Robin Wright si impegna a scomparire dalle scene.
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Quello che succede venti anni dopo, quando la realtà virtuale ha soppiantato il mondo reale, si vede nella seconda parte di «The Congress». Qui è interessante notare come l’ipotesi «fantascientifica» di una scannerizzazione dell’attore, per l’utilizzo delle sue performance, sia da tempo una realtà. Si va, infatti, dalla scannerizzazione elementare per i videogiochi (una curiosità: in «The Congress» Robin Wright, vestita solo di una tutina bianca aderente, viene scannerizzata in una sfera che non è stata costruita appositamente per le riprese, perché a Los Angeles quella struttura esiste davvero, solo che, a differenza di quanto mostrato nel film, «l’operazione è molto rapida, in trenta secondi, un minuto al massimo è tutto finito», ci ha confidato Ari Folman), alle raffinatezze del «performance capture», di cui è maestro indiscusso l’attore Andy Serkis.
Serkis indimenticabile Gollum nel
«Signore degli Anelli» e in
«The Hobbit», infatti, complice una tuta grigia costellata di sensori e una micro cinepresa indossata come casco a riprenderne i movimenti degli occhi, è l’attore più «invisibile» del mondo, visto che la sua recitazione e i suoi movimenti sono stati convertiti dai maghi degli effetti speciali nell’emaciato hobbit schiavo dell’Anello come nel gigantesco
King Kong, nel cartoonesco Capitano Haddock di
«Tintin» come in Cesar, scimpanzé condottiero nei prequel del
«Pianeta delle Scimmie». Tra questi diversi livelli di raffinatezza ci sono infinite gradazioni di sfruttamento del digitale, utilizzato per modificare e integrare le prestazioni degli attori.
Oggi, infatti, può capitare che, nonostante una morte prematura, una star possa completare il proprio film se le riprese erano ancora in corso al momento del decesso. il primo caso è stato quello di Brandon Lee che, sul set di
«Il corvo» (1994) di cui era protagonista, fu ucciso in scena dal vero colpo di una pistola che avrebbe dovuto essere caricata a salve, quando mancavano solo tre giorni alla fine delle riprese. Il regista Alex Proyas fu costretto allora a ricorrere a trucchi digitali e a controfigure per terminare il film. Il secondo caso di «morto recitante» è quello di Oliver Reed, schiantato da un attacco di cuore in un pub della Valletta, a Malta, il 2 maggio 1999, in una pausa delle riprese del
«Gladiatore», dove recitava il ruolo di Proximo.
Il regista ha completato allora alcune delle sue scene in computer grafica, con un lavoro costato 3 milioni di dollari extra. Procedimento analogo sarà effettuato anche con
Philip Seymour Hoffman, morto lo scorso 2 febbraio di overdose, per la sua performance nelle due parti di «Il canto della rivolta», con cui si conclude la saga
«Hunger Games»: il girato già esistente dell’attore sarà integrato, infatti, da un suo clone in computer grafica, per concluderne la presenza nella vicenda.
Il caso più recente, che giustifica appieno la definizione di «documentario fantascientifico» data a «The Congress» dal suo autore, riguarda il povero Paul Walker, eroico
Brian O’Conner della saga
«Fast & Furious». Walker, reso celebre dalle spericolate corse in macchina dei sei film di questa serie, durante una pausa delle riprese del settimo episodio, si è schiantato in automobile, lasciando attoniti famigliari, amici e colleghi e costringendo la produzione della Universal ad affrontare un problema di non facile soluzione, perché l’attore doveva ancora girare almeno metà delle proprie scene.
L’uscita del film, prevista per l’11 luglio 2014, è stata posposta al 10 aprile 2015: per permettere sì al cast di superare il trauma, ma soprattutto per mettere in grado lo sceneggiatore Chris Morgan e il regista James Wan, di elaborare un’«uscita di scena» che rendesse degnamente omaggio all’attore scomparso e al suo personaggio. In sostanza si deve decidere se, almeno nella finzione cinematografica, Brian O’Conner possa continuare a vivere.
Se per ricreare la sua presenza in scena, infatti, si sono scelti quattro attori di taglia simile al protagonista, che dovranno fungere da base per il lavoro dei maghi del computer nel dar vita a un Paul Walker «digitale», dotato della voce e del volto del defunto (il primo ad essere contattato per questo ingrato compito è stato Cody Walker, suo fratello minore), il problema è decidere come giustificare il fatto che questo sia l’ultimo film dove O’Conner apparirà. Le opzioni due: farlo morire, ucciso dalla vendetta del cattivo di turno Jason Statham, che ha lanciato la sua sfida all’affiatato gruppo guidato da Dominic Toretto (Vin Diesel), nel finale di «Fast & Furious 6», oppure farlo ritirare a vita privata con la sua amata, perché il gruppo ha deciso di proteggerne la felicità. Un modo quest’ultimo che concederebbe, almeno al personaggio, l’happy end che la vita ha negato al suo interprete.