Tokyo, un po' capitale, un po' videogame

I “gei-cen” della capitale giapponese non sono 
più sale giochi come 
le intendiamo noi. Sono cattedrali totalizzanti, quasi delle repubbliche indipendenti: che portano lontano dalla vita vera, dal lavoro e dall’amore (Foto di Andrea Frazzetta)

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I l credito da 100 yen è appena sprofondato nella pancia della macchinetta, con un rimbombo metallico. «Anno Domini 2049, in una metropoli futuristica…»: la scritta appare sullo schermo, sullo sfondo si staglia un pixelato skyline notturno di grattacieli. Un uomo di mezz’età dalla cravatta allentata si accende una sigaretta. La musichetta elettronica lo incalza e lui mette mano ai comandi: il suo viaggio nel tempo ha inizio. Alla sua sinistra, un’ala di colletti bianchi come lui, soldatini incasellati davanti agli schermi. Le luci al neon illuminano la sala senza pietà, le note sintetiche si fondono con il fumo. Sguardi concentrati, labbra che si schiudono per smorfie di soddisfazione o disappunto dettate dai passaggi del videogioco.

Ieri, oggi, domani: nel Giappone dove c’è almeno una console in ogni casa, tra PlayStation 4 e Xbox One, il richiamo delle sale giochi - i “gei-cen” - non è mai tramontato. Al contrario, i giornali pubblicano a getto continuo aggiornatissime classifiche delle sale in voga. Il fascino retrò dei giochi dell’infanzia si fonde con quello dei game di ultima generazione, fantasmagorie che richiamano le folle nelle aree di Shinjuku, Shibuya, Akihabara. E nella surreale Joypolis, gei-cen all’ennesima potenza sull’isola artificiale di Odaiba, reame al neon fra l’enorme robot Gundam e la spettacolare ruota panoramica, dove il tuo volto viene ripreso e proiettato in maxischermo sul muso di una foca.

[[ge:rep-locali:espresso:285130098]]A Tokyo le arcade sono scintillanti balene disseminate ovunque, nella cui pancia viene riversata ben più della semplice voglia di gioco e distrazione. Sono collettori di solitudini e di identità, spie di fenomeni sociali che attraversano il format collettivo giapponese, tra i più esigenti e gravosi per gli individui. Con reazioni altrettanto estreme nelle nuove generazioni: crollo della natalità, avversione per il matrimonio e per le relazioni sentimentali, isolamento progressivo in un Paese in cui la solitudine è sì pratica rispettata, ma sta diventando un problema epocale, quantificato dalle statistiche.

I gei-cen di Tokyo e di Akihabara in particolare, cattedrali da otto piani o angusti tempietti dell’entertainment, prosperano anche negli interstizi di questi scollamenti individuali. Sono giochi di ruolo collettivi: zone franche, repubbliche indipendenti dove sfuggire alle pressioni carrieristiche e alle notizie di un’economia stagnante, per una donna all’epiteto di “oniyome” cioè moglie-diavolo se s’azzarda a tentare il complicato connubio maternità e lavoro, per un giovane alle regole e insidie del dating. Una chimera, per gli under 30, trovare l’amore: uno su tre non è mai uscito per un appuntamento con una ragazza, più di metà non ha alcuna relazione sentimentale. È la “shekkusu shinai shokugun”, ovvero sindrome del celibato. Così prospera più che mai Akihabara, quartiere di Tokyo che tutti chiamano “città elettrica”. Qui gli otaku, appassionati di videogiochi, manga e anime, fantasy e fantascienza, hanno creato il loro regno, a immagine e somiglianza dei loro eroi e mondi. Un tripudio di negozi di manga e di gei-cen imbastisce l’anima di questa città-stato del gaming. Tra mura luccicanti dismettono i panni del cittadino inchiodato alla produttività e ai dettami sociali e vestono, letteralmente, quelli dei personaggi di “Street Fighter”, di serie come “Final Fantasy” e “Sengoku Basara” o manga come “Vocaloid”. Sono gli adepti del cosplay: nei loro costumi spesso di eccezionale fattura li vedi scorrazzare per le vie di Akihabara come, in massa, al raduno dell’anno, il Tokyo Game Show: fiera nata nel 1996 a Chiba, periferia sudest di Tokyo: quest’anno dal 18 al 21 settembre, 300 mila i visitatori previsti.

In Occidente li chiamiamo geek o nerd, simpatici secchioni eccentrici sdoganati da serie tv come “The Big Bang Theory” che trovano l’amore nella bionda Penny della porta accanto. Per gli otaku giapponesi è tutt’altra storia: dietro gli zero e uno digitali, altri numeri raccontano una società che ha forse irreversibilmente imboccato la via della solitudine. Il 43 per cento delle famiglie nipponiche è ormai formato da una sola persona. La natalità sta crollando, entro il 2060 le autorità stimano una riduzione di un terzo della popolazione. Nuove parole sono state coniate a descrivere pratiche dilaganti, specie tra i giovani. Dal “pot noodle love”, gratificazione istantanea e passeggera nella forma di sesso occasionale, al “mendukosai”, che si può tradurre “non mi scocciate”: l’avversione verso il fardello di aspettative e responsabilità che comporta una relazione amorosa. Alcuni studi svelano che una giapponese tra i 18 e 35 anni ha oggi il 40 per cento di probabilità di non fare mai un figlio. E 9 donne su 10, in un Paese in fondo alle classifiche di pari opportunità sul lavoro, si dicono convinte che un matrimonio peggiorerebbe la loro qualità della vita. Per questo, proprio come fanno da tempo gli uomini, vanno in locali dove pagano per essere intrattenute, senza però alcuna implicazione fisica, mentre il quartiere di Ikebukuro pullula di gei-cen frequentati quasi esclusivamente da donne: regola non scritta che permette di giocare senza essere, appunto, “scocciate” dagli approcci maschili. Per paradosso, le giovani giapponesi beneficiano oggi di una società strutturata in passato per i mordi e fuggi del maschio workaholic.

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Oltre all’entusiasmo scatenato dai microcosmi luccicanti dei gei-cen nelle sale giochi si acquista soprattutto la possibilità di isolarsi tra gli altri in una megalopoli da 33 milioni di anime. Nelle sale aperte giorno e notte di questa “Otaku Republic” la grafica dei videogame evolve in un’ipnosi di luci, suoni, colori. Fuori, Tokyo appare come un sogno digitale, una grafica ben riuscita che ti attende dopo ore di gioco, solo nella moltitudine. Videogame e arcade sono ponti tra i due mondi, anelli di congiunzione. I due lati dello specchio, o dello schermo: solitudine e collettività, reale e virtuale. Entri ed esci, in un oscillare tra realtà e sogno, convivialità e autarchia: agghindandoti come un personaggio di Tekken nel bagno di folla al Tokyo Game Show, o recitando ossessivamente il gioco di ruolo della vita “virtualizzata”: davanti a macchine che traducono in meccanismi di gioco i piccoli o grandi eventi della vita quotidiana.

Oltre al videogame o al tradizionale pachinko, rumoroso passatempo in cui si fa cadere una sfera metallica in sezioni prestabilite, c’è molto di più nel Giappone videoludico dei nostri giorni: la pratica sempre più diffusa di vivere di surrogati e compensazioni, serviti da sistemi ibridi di gamification, slot machine e role playing.

Invece di stare a casa con una fidanzata che non vuole o non può avere, l’otaku passa ore a combinare il “matrimonio perfetto” di personaggi sullo schermo, ogni livello una fase, corteggiamento, primo bacio, anello, il fatidico sì. O varca la soglia del “Candy Fruit Refresh” e con una trentina di euro gioca mezz’ora a “Monster Hunter” con una signorina vestita da domestica, in un ambiente che riproduce il salotto del giapponese medio; pagando un extra, lei gli pulisce amorevolmente le orecchie mentre lui fa piazza pulita dei nemici. È infine di se stessa, oltre che degli evergreen del videogame, che la mitologia contemporanea della “città elettrica” si nutre in una vertigine autoreferenziale. Spopolano i giochi dedicati alle AKB 48, band musicale composta da 48 teenager: azzeccando la combinazione, si vince l’esibizione canora sullo schermo. Per vederle dal vivo, basta uscire dalla sala e raggiungere il teatro dove le fanciulle si esibiscono dal vivo, ogni giorno. Osannate dal pubblico degli otaku.

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